Melancholia, La Effe, ore 1,00.
Melancholia, regia di Lars Von Trier. Con Kirsten Dunst, Charlotte Gainsbourg, Kiefer Sutherland, Charlotte Rampling, John Hurt, Stellan Skarsgård, Alexander Skarsgård, Brady Corbet, Udo Kier.
In un metafisico castello che ricorda L’anno scorso a Matrienbad, un party di nozze degenera in gioco al massacro (altro che Carnage di Polanski). Intanto, la terra rischia la collisione con un pianeta impazzito e sfuggito alla sua orbita. Sarà fine del mondo? Lars Von Trier gira un film dominato dal pensiero magico e dalla paura neomedievale dell’apocalisse. Un film diviso in due capitoli connessi da parecchi fili.(Recensione scritta dopo la proiezione a Milano nella rassegna ‘Cannes e dintorni’ 2011. E rispetto ad allora, la statura di questo film è cresciuta parecchio nella mia percezione, tant’è che oggi lo considero uno dei film fondamentali della decade).
Al cinema è l’anno dei film (d’autore) con pianeti e altre variazioni cosmico-astronomiche. Ha incominciato Terrence Malick con il palma d’oro The Tree of Life, arriva adesso in Italia (dopo la prima mondiale a Cannes) questo Melancholia del peso massimo danese Lars Von Trier, dove un pianeta che porta il nome del titolo schizza fuori da chissà quale orbita avvicinandosi pericolosamente alla terra e rischiando di disintegrarla. Al filone va anche ascritto quell’Another Earth visto a Locarno in concorso, e prima presentato al Sundance, dove da qualche parte del cielo si profila un nuovo pianeta che è l’esatta replica del nostro, solo temporalmente sfasato (e citiamo, anche se solo per il titolo, Corpo celeste, debutto di Alice Rohrwacher).
Tra tutti, Lars Von Trier è quello che prende le faccende cosmiche più sul serio. In Melancholia ogni metafora non è casuale anzi fortemente voluta. La catastrofe che incombe sulla terra si riflette (o ne è causa?) nella depressione, nella malinconia per chiamarla appunto con più nobiltà, che sta per distruggere gli equilibri psichici ed esistenziali della co-protagonista, la sposa Justine (Kirsten Dunst, che a Cannes ha vinto il premio come migliore attrice). Coprotagonista, perché il film è nettamente diviso in due capitoli, il primo dedicato a Justine, il secondo alla di lei sorella Claire, una Charlotte Gainsbourg che torna al cinema di Von Trier dopo Antichrist. Il pianeta incombe sull’una e l’altra parte di Melancholia, ma i due spezzoni restano autonomi, sono diversi i punti di vista narrativi, anche se molti fili sotterranei li collegano e i personaggi sono in parte comuni. Però la gran parte delle recensioni parla solo o soprattutto del primo capitolo, dimenticandosi dell’altro o relegandolo in qualche riga, et pour cause. Il fatto è che Melancholia è magnifico quando racconta di Justine, mentre si dissolve nella parte dedicata a Claire. Alla fine si ha la sensazione che Von Trier sia rimasto intrappolato in una sorta di labirinto psichico. Se il cinema è anche terapia (per chi lo fa e qualche volta per chi lo guarda), stavolta si ha l’impressione che abbia fallito. Intendiamoci, il regista che ci ha dato opere capitali come Le onde del destino e Europa mica ha perso niente della sua capacità di costruire immagini e spezzoni narrativi potenti, l’occhio rimane di assoluta precisione. A venir meno è la lucidità, il distacco dalla materia messa in scena.
Von Trier sembra travolto dalle sue ossessioni e in estrema difficoltà nel maneggiarle, ma finchè non se ne lascia sommergere riesce a darci e dirci qualcosa di molto importante.
Il primo capitolo di Melancholia è formidabile, niente da dire. Siamo da qualche parte del Nord Europa, forse in Danimarca, forse in Svezia o in quella parte di Scozia che, come in Le onde del destino, si affaccia sul gelido Mare del Nord. O forse siamo sul Baltico, chissà. La neosposa Justine e il marito si stanno dirigendo verso il castello dove li attendono gli invitati per il ricevimento di nozze. Solo che la limo nuziale si impantana, il sentiero è troppo stretto, gli sposi sono costretti a mollarla in mezzo al bosco e farsi l’ultimo pezzo di strada a piedi. Justine arriva in ritardo al party, e l’abito bianco è irrimediabilmente schizzato di fango. Dal prologo del film (immagini che sono debitrici, assicura la mia amica E., alla videoart di Bill Viola) avevamo già appreso che lassù il pianeta Melancholia è impazzito e rischia di schiantarsi prossimamente sulla terra, ma gli invitati e i festeggiati sembrano rimuovere la faccenda, si beve e canta e balla come sul Titanic dimenticando volutamente la possibile tragedia che incombe. Il marito di Justine è un bello e bravo ragazzo a lei devoto e completamente dominato da lei, lato forte della coppia. Conosciamo man mano gli altri personaggi. La sorella della sposa, Claire (Charlotte Gainsbourg), mente apparentemente razionale e portata al calcolo che ha organizzato il ricevimento in quel castello che è albergo di lusso e si affaccia su un campo da golf impeccabilmente tenuto, castello che appartiene al ricco marito John, finanziere dalle imprecisate ma certo lucrose attività (un Kiefer Sutherland molto in parte e capace di sorprendenti finezze interpretative). Emergono, dal coro degli invitati, altre facce, altri corpi, altre storie. La madre della sposa, donna di spietato cinismo (una Charlotte Rampling dalle battute taglienti, la madre di una sposa meno convenzionale che si sia mai vista al cinema e non solo), il padre (John Hurt), separato da molto tempo e puttaniere instancabile che al party arriva con due giovani amiche. Il boss dell’agenzia di pubblicità (Stellan Skarsgard) per cui Justine lavora come art director (la promozione viene annunciata proprio al ricevimento di nozze) e che per lei ha la massima stima professionale, anche troppa, al punto da volerle carpire un nuovo claim per una campagna importante perfino durante il ricevimento. Tutto sembra perfetto, ma Von Trier ci ha già lanciato segnali d’allarme. Quel pianeta incombente, il fango sul vestito e le scarpe della sposa, e quelle inquadrature immobili e lunari del prato e parco del castello, di inquietante rigore metafisico che riportano alla memoria le architetture di L’anno scorso a Marienbad. Avvertiamo che qualcosa accadrà, anche se non sappiamo cosa. La malinconia, la depressione o chiamatela se volete follia si impossessa a poco a poco di Justine, che si allontana incomprensibilmente dal sollecito marito, fugge nel parco, fa la pipì selvaggiamente all’aperto sempre con l’abito bianco addosso, fa l’amore con uno sconosciuto (dopo che si era rifiutata di farlo con il marito), si mette in urto con la madre, il padre, il datore di lavoro. L’entropia, l’energia negativa, sembra impossessarsi del castello e come una forza maligna portare tutto verso la rovina, l’implosione. La festa lascia il posto a un’orgia quasi cannibalica di crudeltà in cui tutti si fanno del male e si azzannano. Come in Carnage di Polanski-Reza, ma con molta più sofferenza vera e vera ferocia, le relazioni affettive e sociali di dissolvono per lasciare il posto all’homo homini lupus. Justine precipita irrimediabilmente nella sua depressione, nel distacco dal mondo, il marito pur amandola si rende conto che il loro matrimonio è finito ancora prima di incominciare e se ne va. Qello che resta è un panorama di rovine psicologiche, di vite devastate e ferite, e la prima vittima (e anche carnefice) è la sposa.
Lars Von Trier conduce questo racconto di orrore e distruzione con maestria. Lavora di camera a mano (alternandola all’uso di camera fissa per le metafisiche panoramiche esterne) stando addosso ai personaggi e scrutando quasi perversamente i loro visi e i loro corpi, organizza drammaturgicamente l’escalation della tensione e il progressivo dissolversi dell’armonia senza sbagliare una mossa e i tempi, distribuisce e moltiplica i sintomi del massacro che sta per avvenire, dell’impasse entropico. Ci comunica malessere e disagio (sembra che da quell’inferno dei vivi non si possa scappare, e che anche noi ci resteremo intrappolati) come pochi al cinema sanno fare (Haneke e il miglior Polanski, che non è quello di Carnage). Stranamente questa prima parte di Melancholia ricorda molto da vicino Festen, il film di Thomas Vitenberg del 1998 su una festa di famiglia finita anche lì in massacro che applicava rigorosamente i principi di Dogma, il manifesto cinematografico di massima austerità e ascetismo (camera a mano, luci naturali, nessuna belluria e decorativismo) dettato negli anni Novanta dallo stesso Von Trier: uno scambio maestro-allievo che apre qualche interrogativo (sarà intenzionale?) e su cui sarebbe interessante sapere di più.
Se il film finisse qui, con l’autodistruzione di Justine, sarebbe un gran film. Invece dabbiamo anche assistere alla seconda parte, quella in cui Claire/Charlotte Gainsbourg diventa protagonista. Il party è finito, gli invitati se ne sono andati, il matrimonio di Justine irrimediabilmente compromesso. A prendere il sopravvento adesso è la paura, rimossa nella prima parte, della collisione del misterioso, impazzito pianeta Melancholia con la terra. Nel castello sono rimasti in pochi. Justine con Claire, quella che più teme il disastro in arrivo, il marito John, che rassicura tutti sulla improbabilità della catastrofe, il loro figlio Leo, che vive l’attesa come un gioco o una strana lezione di astronomia. Justine sembra risalire lentamente dalla sua catatonia e arrivare quasi a una stoica, serena accettazione di quello che potrebbe succedere. La più turbata adesso è Claire, che osserva compulsivamente il cielo e segue sul web le ultime news, non c’è più traccia in lei della razionalità di cui aveva dato prova nella prima parte. Come se tra le due sorelle si fosse verificato un misterioso scambio di fluidi psichici. Compaiono dei barbiturici, e capiamo che qualcuno ne farà uso (è come con le pistole: insegnava Cecov che quando compaiono in un racconto o in una pièce prima o poi spareranno). Ma l’attenzione è tutta rivolta a Melancholia, che man mano si allarga all’orizzonte fino a inghiottirlo tutto e ad incombere sul gelido castello in Danimarca (Elsinore?) e i suoi residui ospiti. Von Trier prende molto sul serio la cosa fino a sfiorare qualche volta il ridicolo, però quelle immagini del gran pianeta ti si fissano dentro, e non te le scordi. Silenzio, ovviamente, sul finale.
In questa seconda parte del film non c’è una storia forte come nella prima, un asse narrativo vero, solo un mescolarsi di angosce o di opposte reazioni al disastro in arrivo che però non si struttura mai in racconto. Disturba ma anche avvince, di Melancholia, il pensiero magico che sembra dominarlo tutto, la regressione da parte del suo autore a una paura di fine del mondo e dell’apocalisse di stampo premoderno. Melancholia cancella ogni fiducia e ogni speranza nei lumi della ragione, ripiomba in una dimensione arcaica e mitica, ci riporta a un’oscurità altomedievale popolata di cosmologie e cosmogonie e corripondenze simboliche tra gli astri e le vite umane. Lars Von Trier è un alchimista, e firma il film più magico degli ultimi tempi. Peccato che sia molto difficile credergli.
P.S. Non ho accennato alle dichiarazioni sciaguratamente antisemite e filonaziste che Lars Von Trier fece a Cannes proprio durante la conferenza stampa per Melancholia, e che gli costarono l’ostracismo dal festival quale persona non grata. Penso che le idee, anche le più nefaste di un autore, non c’entrino con la sua opera e non debbano infuenzarne il giudizio.
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