Locarno Festival 2015. Recensione: CHANT D’HIVER. Iosseliani torna e divide

get-3Chant d’hiver, un film di Otar Iosseliani. Con Rufus, Amiran Amiranashvili, Pierre Etaix, Mathias Jung, Mathieu Amalric, Enrico Ghezzi. Concorso internazionale.
get-6Il ritorno di Iosseliani al cinema ha nettamente diviso la stampa, qui a Locarno: applausi da parte di un gruppo di ammiratori oltranzisti del regista georgiano, e molta indifferenza. Film-affresco che si muove su e giù nel tempo e nella geografia, tra la Parigi di oggi e quella del Terrore, e un paese balcanico o caucasico in guerra. Troppa roba, troppi piani narrativi che non si connettono. Certo la leggerezza di tocco di Iosseliani è intatta, ma non basta purtroppo. Voto 6 meno
get-4get-5Divisivo. Alla fine del press screening si son sentiti applausi entusiastici da parte di uno zoccolo duro di fedelissimi alla linea Iosseliani (ma non s’è sempre scritto Ioseliani con una esse sola, e come mai adesso il raddoppio?), zero buuh e però molta indifferenza e qualche eccheppalle. Uno dei maestri in concorso a questo Locarno (gli altri sono Zulawski e Chantal Akerman), anni 81, firma un film molto suo, della sua solita leggerezza e grazia, con figurine quasi bidimensionali da cartone, da slapstick, da Tati-movie. Un film che ha tratti da musical anche se di musica non se ne sente quasi, con personaggi che si muovono come danzando e che scivolano via lievi come in un Demy, in uno Stanley Donen. O come in un numero circense. Eppure Chant d’hiver non ce la fa mai a volare, nonostante il tocco sempre riconoscibile di Iosseliani. Troppo lungo (due ore), troppo affollato di personaggi che si sfiorano e qualche volta confusamente interagiscono, costruito su almeno tre piani di spazio-tempo (un prologo ai tempi della ghigliottina, una guerra balcanica o forse caucasica anni Novanta o Duemila, la Parigi di oggi) e non si capisce il perché, visto che si fatica a metterli in relazione. La prima parte è la meglio, con quell’aristocratico che si fa ghigliottinare con la sua pipa in bocca, mentre le tricoteuse guardano e tricoteggiano davvero aspettando il sangue. E la guerra balcanica o caucasica (da georgiano, Iosseliani avrà visto da vicino qualche conflitto post-sovietico) è ricostruita nel segno dell’insensatezza e della ferocia, e però anche con ironia e tocchi da teatro-cinema dell’assurdo, in una miscela di registri e toni ad alto rischio che solo a Iosseliani poteva riuscire. Ma quando si passa a Parigi, con la sua folla di ultimi tra Kaurismaki e il vetusto realismo poetico anni Trenta, Chant d’hiver comincia a ansimare. Barboni, nobili spiantati, commercianti d’armi dall’aria assai qualunque. Porte misteriose che si aprono, si chiudono, spariscono, riappaiono, si riaprono su mondi paralleli. Un pulviscolo di microstorie, un pullulare di figure e figurine come in una tela fiamminga o in un romanzo popolare ottocentesco. Solo che poche riescono a interessarci davvero, e la maestria con cui le segue e le muove Iosseliani non basta a imprimercele nella memoria. Si arriva abbastanza esausti alle fine delle due ore di proiezione, con la sensazione che un bel taglio avrebbe giovato. Il guaio è che non si capisce cosa sia questo pur delizioso Chant d’hiver, non si riesce adafferrarlo, e quando ci provi ti scivola via. Cos’è, il mondo visto dal lato di chi perde e sta perennemente sotto? La vita e la storia come risultato più del caso che della necessità? Domande inutili. Occhio invece al cast, assolutamente di culto. Oltre a Mathieu Amalric, sempre disponibile verso le esperienze filmiche più avventurose, c’è il mitologico attore-mimo-clown degli anni Sessanta Pierre Etaix, che adesso di anni ne ha 87, una delizia quale marchese-clochard. E poi, scusate, c’è Enrico Ghezzi quale aristicratico senza soldi costretto a traslocare da Parigi in un suo diroccato castello. Ghezziani di tutto il mondo, non perdetevelo.

 

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