Locarno Festival 2015. I 7 film che ho visto martedì 11 agosto (Chevalier, Entertainment, O Futebol, Pastorale cilentana…)

'Pastorale cilentana' di Mario Martone

‘Pastorale cilentana’ di Mario Martone

1) Entertainment di Rick Alverson. Concorso internazionale.
Di quei film americani molto da Sundance e/o SXSW festival (quello di Austin) che qui in Europa non hanno mai molta fortuna. Sarà che sembrano poco autoriali, sarà che tendono a riprodurre modelli narrativi ormai codificati (approccio visulamente sporco, macchina da presa mobile, personaggi ai margini, ambienti sfigatissimi ecc.), fatto è che dalle nostre parti il critico e al critichino tende a stortare il naso. Invece questo Entertainment è notevole, notevolissimo, ottima sorpresa, una delle non poche di questo Locarno. Non so se si beccherà un premio, anche perché la concorrenza è agguerrita, ma la sua bella figura l’ha fatta, eccome, e speriamo in una distribuzione anche italiana. Desolato tour per la California più desertica e abbandonata (Mojave o giù di lì) di uno stand up comedian, un barzellettaro che con le sue punchlines fulminani e glaciali si trova ad affrontare pubblici plebei che non sempre apprezzano, anzi. Lo precede in pedana un ragazzo clown che destruttura quell’arte circense cavandone fuori qualcosa di assai contemporaneo e inquietante. Mai inquietante e disturbante come il nostro comedian, con battute (che purtroppo non mi sono appuntato) che grondano intelligenza, perfidia e un senso desolato dell’esistenza. Per aumentare il già notevole tasso di sgradevolezza Neill, tale il suo nome, si alliscia i capelli con del pessimo gel, inforca occhiale da nerdone malinconico, si mette le più brutte camicie del mondo. Si parte con lo spettacolino in una prigione, e i detenuti si rivelano un pubblico gentile e recettivo. Ci sarano spettatori peggiori nelle bettole della California. Strepitoso Neill quando insulta chi non gradisce o insulta lui, e gli improperi riversati su una ragazza rea di averlo rimbeccatto sono un sublime capolavoro di livore e aggressiva laidezza. Ah sì, c’è anche una figlia, bellissima, che da una qualche parte della California pratica la color therapy (insomma, una di quelle cazzate para-new age molto west coast). Neill vorrebbe ristabilire una relazione decente con lei, la invita ai suoi show, ma lei non verrà. Finale a un Hollywood party bordo-piscina dove il nostro petersellereggia parecchio. Il tutto filmato dal regista Rick Alverson in un tono glacialmente oggettivo. Il triste comico Neill, con la sua impassibilità, con la sua fissità deadpan, ricorda da vicini gli sfigatissimi venditori di scherzi del Piccione seduto sul ramo di Roy Andersson. Neill Hamburger è un personaggio creato dall’attore Gregg Turkington e diventato un cult in tutto il mondo. Qui esce dai teatri, dai club, per diventare, grazie a Rick Alverson. il protagonisti atono e insieme straziante di un film bello e disturbante. Voto 7 e mezzo
2) Chevalier di Athina Rachel Tsangari. Concorso internazionale.
Nome centrale della new wave ellenica, Athina Tsangari, oltre che regista in proprio (prima Attenberg, adesso questo molto atteso Chevalier) è anche produttrice: dei fondamentali Dogtooth e Alpis di Yorgos Lanthimos e anche di uno dei più bei film indie americani di questi anni, Before Midnight di Richard Linkltaer (girato in Grecia, e dove compare anche come attrice). Chevalier ha parecchio del nuovo cinema di Atene, l’impassibilità con cui si osservano i personaggi – insetti da laboratorio entomologico -, l’esplorazioni di microcosmi in cui la normalità trascolora nel patologico e ci si confonde. Un grupo di amici decide di imbarcarsi sullo yacht di uno di loro per una partita di pesca nell’Egeo. Solo uomini. A bordo anche il maggiordomo-chef e il suo assistente. Per ammazzare il tempo si inventerà un gioco, quello di assegnare dei punti non solo alle abilità (sportive, mentali ecc.) di ciascuno, ma anche ai suoi comportamenti, alle sue eventuali manie, lacune, ossessioni. Non ci vuol molto perché l’apparente armonia si spezzi e faccia emergere rivalità distruttive, apra linee di faglia all’interno del gruppo. Tutto è lecito pur di accumulare punti e farne invece perdere gli avversari. Si penetra di notte nella loro cabine a scoprire segreti celati, si impone che le telefonate siano pubbliche in modo da poterne giudicare il tono e l’efficacia. Ci sarà perfino un test del sangue obbligatorio per tutti, e chi avrà il peggior tasso di colesterolo o trigliceridi verrà penalizzato. Non manca l’ossessione tutta maschile dell’avercelo piccolo, sicché uno degli amici verrà spiato e sputtanato come portatore di cazzo insignificante (con tanto di scena di erezione, la seconda di questo Locarno dopo quella dell’israeliano Tikkun). Ci si diverte anche, alle infinite e ingegnose trovate che Tsangari mette in sequenza. E ci si allarma per il clima di sospetto e delazione che finisce con l’ammorbare anche le amicizie più solide, mentre lo yacht si trasforma man mano in un microcosmo totalitario. Ogni privacy è violata, ogni spazio personale invaso, ogni sentimento diventa pubblico, ogni segreta colpa dev’essere amessa e confessata. Tsangari è assai abile nel far scivolare il suoi personaggi verso l’abiezione, ma si ferma un attimo prima della possibie catastrofe. Il gruppo approderà in porto, ci sarà un vincitore. Solo che niente e nessuno sarà più come prima. Cinema di osservazione e indagine, cinema-laboratorio che guarda e disseziona impietosamente le sue cavie. Come in quegli sperimenti in cui si rinchiudono gli umani in laboratorio per saggiarne le reazioni in situazioni eccezionali e estreme. Film cerebrale e freddo come un mind game. Anche se Tsangari non ha la ferocia dell’altro capofila del cinema greco, Yorgos Lanthimos. Dialoghi perfettamente scritti e ottimo ritmo narrativo, e una sceneggiatura brillante che, pur con qualche lacuna (il fatto che tutti siano allo stesso tempo giudici e giudicati non sta molto in piedi), sembra già pronta per un remake hollywoodiano. Voto 8
3) O Futebol di Sergio Oksman. Concorso internazionale.
Un altro dei molti film di questo Locarno su figli alle prese con genitori anziani e/o malati, e vorrà pur dire qualcosa. Documentario brasiliano-spagnolo con il quarantenne regista Sergio Oksman che torna da Madrid in Brasile, a San Paolo, a far visita dopo parecchio tempo al padre. Siamo nell’estate del 2014, mentre lì si stanno giocando i mondiali di calcio, quelli del disastro italiano (eliminati dopo il girone iniziale) e brasiliano (ignominiosa sconfitta verdeoro per 6 a 0 alla semifinale con la Germania). Si parla molto di calcio tra padre e figlio, che è anche un antico e consolidato codice maschile per comunicarsi e parlare di sé e del mondo. La rimpatriata è scandita dagli incontri del mondiale (si parla anche di una partita dell’Italia, e il padre giustamente si chiede – ce lo siamo chiesto tutti almeno una volta – perché la maglia della nostra nazionale sia azzurra se i colori della bandiera sono bianco rosso e verde). Lessico famigliare con la buona invenzione di ricorrere alla mediazione pallonara, dunque qualcosa di più e meglio di un piatto ‘ti ricordi, io mi ricordo’. Succederà qualcosa, ci sarà un funerale (benché ripreso da lontano, m’è sembrato di capire si trattasse di un funerale ebraico). O Futebol si lascia guardare e il regista è abbastanza abile nel rendere interessante la sua privatissima storia. Sorge però qualche dubbio sulla costruzione narrativa così perfetta, quella scansione così precisa attraverso le partite, quel finale proprio in coincidenza con la disfatta del Brasile. Voto 6
4) Les êtres chers di Anne Émond. Cineasti del presente.
Tremendo. Di quei film che ti fanno rimpiangere di non averne visto un altro, e di aver perso due ore della tua vita. Made in Québec, ma se vi aspettate un qualcosa in simil-Xavier Dolan vi sbagliate. Storia e dramma e saga di famiglia di melensaggine disgustosa, che ce la a inzuccherare e inzaccherare  con il rosa del sentimentalismo perfino i due momenti di massima tragedia del film (due suicidi). Si nasce, si cresce, ci si innamora, ci si sposa, si fanno figli, i figli diventano grandi, si innamorano ecc. Il tutto all’ombra prima di una fattoria e poi di una casa affondata nel verde. Cose tremendissime, come il papà che fabbrica marionette, e ci fa pure i soldi (maddài). Insostenibile, e pure lacunoso nella costruzione drammaturgica. Da salvare solo la giovane attrice che fa la figlia, somigliantissima a Scarlett Johansson. Et c’est tout. Voto 2
5) Moj Brate – Mio fratello di Nazzareno Manueli Nicoletti. Cineasti del presente.
Spiace dirlo, ma non era proprio il caso di selezionare questo docufilm in gran parte italiano. Non tutte le storie private, ricostruite in cinema, sono interessanti. O meglio, tutte le storie sono potenzialmente interessanti, solo che bisogna saperle raccontare e rappresentare. Non è il caso di questo film, ecco. Il regista si muove tra Canada, l’Italia e Mostar, la città bosniaca che fu uno dei simboli delle guerre balcaniche anni Novanta, a ripercorrere i luoghi e la vita di un amico morto suicida. Un amico che, con i suoi spettacoli di clownerie, aveva diviso con lui un’esperienza di laboratorio teatrale in una devastata, con il famoso ponte distrutto, scissa tra parte cristiana croata e quella musulmana. Purtroppo ci sono troppe parole in questo Moj Brate, la voce fuori campo è onnipresente e perfino prevaricante. Si parla molto, eppure dell’amico suicida alla fine sapiamo poco o niente, ed è un peccato. Voto 3
6) Pastorale cilentana di Mario Martone. Piazza Grande.
Proiettato per la prima volta al cinema questo corto, ma non cortissimo (sono 19 minuti) di Mario Martone nato come videoinstallazione per il Padiglione Zero all’Expo. Opera – non diciamo operina che suona svalutativo – che ricostrisce un gorno assai tipico, anche troppo, nella vita agreste-pastorale di una famiglia del Cilento costiero e pure rurale in un tempo che potrebbe stare tra Seicento e Ottocento. Naturalmente tutto è plasmato sull’iconografia del tempo di scuola napoletana, tutto è bellissimo e squisito nella fotografia del grande svizzero Renato Berta. Però non si esce dalla pastorelleria di Capodimonte, per quanto d’autore. La madre che cucina, il figlioletto che porta al pascolo le capore, e la nonna fila la lana, ovvio. Un’ottima cartolina promozionale per lemeraviglie del Cilento, solo che non si esce dal presepe (napoletano). Come avrebbe detto qualcuno che ahimè in questo momento non ricordo: non si sente la puzza. Tutto è carinizzato. Era proprio il caso? Voto 5
7) Amnesia* di Barbet Schroeder. Piazza Grande.
Amo molto Barbet Schroeder, uomo che viene dal lontano, dalla Nouvelle Vague di cui fu produttore più che esponente in prima fila autoriale. Poi una carriera registica da perfetto irregolare, tra Europa e America. Ho adorato il suo La vergine dei sicari, e aspettavo con ansia questo Amnesia, il suo ritorno a Ibiza dove aveva girato il film che lo aveva reso famoso a fine anni Sessanta, More. Allora: Amnesia è un brutto film che ne contiene un altro formidabile. Per due terzi mi ha folgorato, poi nell’ultima parte si disintegra nel kitsch, si autosabota, si autodistrugge. Fine anni Ottanta. Una misteriosa signora vive sola a Ibiza: è tedesca, ma per un qualche motivo non vuole farlo sapere, non vuole parlare nella sua lingua, non vuole nemmeno usare una Volkswagen. Perché? Quando arriva come nuovo vicino un bravo ragazzo berlinese che vuole sfondare come dj nei club dell’isola (e ce la farà, diventando la star dell’Amnesia), si mette in moto una catena di reazioni e controreazioni che porterà a galla il rimosso. Il ragazzo si lega a lei, Martha (che è Marthe Keller, attrice culto degli anni Settanta, ancora bellissima), e sarà lui a indurla a scoprirsi. Fidanzata a un violoncellista ebreo, Martha se l’è visto portare via dai nazisti, e da allora ha rimosso dalla sua vita il proprio paese. Quando arrivano in visita la madre e il nonno del ragazzo, sarà psicodramma, e tutti i fantasmi nazionali (e nazional-socialisti) usciranno fuori. Signori, questa parte è straordinaria, il più lucido e insieme compassionevole film che si sia visto sui tedeschi e il loro complicato rapporto con il passato, la necessità di ricordare e anche quella di dimenticare per andare avanti. Un kammerspiel emozionante e bruciante, e lo scontro tra Marthe Keller e Bruno Ganz (il nonno) non lo si dimentica. Purtroppo Barbet Schroeder non ci risparmia il kitsch di Martha che balla, sembra flirtare col ragazzo, e le ultime scene all’Amnesia sono imbarazzanti, per non parlare del tremendissimo tramonto finale. Peccato. Fotografia smagliante di Luciano Tovoli, un grande del cinema italiano anni Settanta. Voto oscillante tra il 3 e il 9, dipende dai momenti.
* Questa recensione è stata scritta lo scorso maggio a Cannes dopo la proiezione fuori concorso di Amnesia.

 

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