Locarno festival 2015. Recensione: SUITE ARMORICAINE. Squisitissimo film (proustiano) come solo i francesi sanno fare

get-31Suite armoricaine di Pascale Breton. Con Valérie Dréville, Catherine Riaux, Elina Löwensohn, Ewen Gloanec, Laurent Sauvage, Manon Évenat, Yvon Raude, Tangi Daniel, Peter Bonke, Kaou Langoët, Klet Beyer. Concorso internazionale.
get-32Françoise ha appena mollato Parigi per insegnare all’università di Rennes, nella Bretagna dov’è nata. Ion, un suo allievo, si innamora di una ragazza cieca e vede la sua vita messa in pericolo da un’irruzione improvvisa. L’ordine borghese insidiato dal caos. Vite lontane destinate a collidere, alle prese con un passato con cui fare i conti. Bellissimo film di sofisticata architettura sull’oggi e sulla memoria, peccato solo per l’ultima, rovinosa parte. Voto 7
get-33Bello e squisito questo penultimo film del Concorso. Di quei film che solo i e le francesi (questo è firmato da una regista) sanno fare. Di complessa e sapiente e sofisticata architettura narrativa, con personaggi assai fini e chic che fan mestieri fichissimi ad alto tasso di intellettualità, dialoghi saturi di reminiscenze letterarie (e qui Proust a manetta) anche quando si parla di cazzullaggini e cose qualsiasi. Sì, un cinema che dichiara la propria nobiltà e perfino superiorità antropologica, di fronte al quale ci si può irritare o lasciarsi catturare. Ho scelto la seconda, e devo dire che Suite armoricaine è, per almeno due terzi, bellissimo e a tratti perfino incantato. Poi precipita nel finale in una retorica regressivo-ecologista che di Proust prende solo la superficiale patina nostalgica e che rischia di rovinare il molto di bello e buono che Pascale Breton ci ha fatto vedere fino a quel momento. Quel dommage! La storica dell’arte Françoise lascia Parigi e un amore forse pericolante con un petulante e assai giudicante psicanalista per tornare a Rennes, nella Bretagna dov’è nata, a tenere un corso all’università. Lei, i ricordi che vengon su dal passato (quelli della cerchia di amici dei suoi vent’anni, le rimembranze dell’infanzia in una casa di campagna con il nonno contadino e guaritore), e in parallelo altre storie, altre vite. In primis Ion, studente del corso di Françoise, innamorato della ipovedente Lydie, Ion la cui tranquilla routine verrà stravolta dal ritorno, anzi dall’invasione, della madre tossica e alcolista da cui era stato allontanato da piccolo dai servizi sociali. Tragitti che la regista ci mostra svilupparsi indipendenti, ma che scopriremo essere invece connessi. Sono bellissime le lezioni di Françoise sulla nascita della prospettiva nella pittura occidentale, bellissime le immagini che proietta e spiega ai suoi allievi. Momenti e scene vissuti e mostrati e replicata dalla regia secondo punti di vista differenti, a legare ciò che sembrava sconnesso. Scene notturne rarefatte e incantate, cieli stellati, alberi scossi dal vento. Un universo di ordine borghese, apparentemente pacificato, ma percorso da un sotterraneo anche se inavvertibile sciame sismico, e insidiato dall’altro mondo, quello dei poveri, dei miserabili, quelli che dal ventre della città strisciano fuori per insediarsi nelle cattedrali del benessere: la madre devastata di Ion, i suoi amici homeless. Non si dimentica l’incontro di Françoise con i due ragazzi che vogliono mettere su un dipartimento di cultura e tradizione bretone, cui lei racconterà del nonno, e del suo sogno con una sfinge di pietra e un bancomat con scritte in un bretone incomprensibile. Che gran film sarebe stato se non fosse incespicato sul sentimentalismo dell’ultima parte, e quello dei bei film rovinati da finali balordi sta diventando un’epidemia. La protagonista Valérie Dréville potrebbe vincere il premio di  migliore attrice.

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