Mostra di Venezia 2015. Recensione: EL CLAN. Dall’Argentina il miglior film (a oggi) del concorso

A211R6MUEl Clan, un film di Pablo Trapero. Con Guillermo Francella, Peter Lanzani, Lili Popovich, Gaston Cocchiarale, Giselle Motta. Concorso.A338C001_141217_R6MU.[1511234-1Primi anni Ottanta, Argentina. Mentre il regime dei generali si avvia al crollo, un lavorantore dei servizi segreti mette su un’azienda familiare di rapimenti a scopo di lucro. Tutti sanno, la moglie, i figli, che anzi collaborano fattivamente all’impresa. Il male come ordinario quotidiano. L’omicidio e la tortura come un qualsiasi lavora. Pablo Trapero è bravissimo nel farci vedere la mostruosità del normale. Possibile qualche premio. Voto tra il 7 e l’8
A398C007_150113_R6MU.[0276722-0Insieme a Sokurov – che però fa storia a sé, per la bizzarria e inclassificabilità del suo Francofonia, per aver già vinto un leone e essere un maestro riconosciuto -, questo El Clan è il film migliore a oggi del concorso. Made in Argentina, con però alle spalle la produzione di Pedro Almodovar e del fratello Agustin con la loro Deseo, il film di Pablo Trapero sfiora il grandissimo risultato, il capo d’opera, se non fosse per qualche vistosa caduta (un imperdonabile, quasi pornografico montaggio alternato di una scopata con la scena di tortura di un ostaggio) e per un sovraccarico ideologico-politico che connette il racconto di una famiglia criminale e dei suoi misfatti alla dittatura dei generali tra anni Settanta e Ottanta, spiegando troppo sbrigativamente i primi con la seconda. Ma questo è cinema di rara potenza, che finalmente si misura con un caso (di vera e nerissima cronaca) sconvolgente, con i demoni che stan sotto la civilizzazione e la borghese vita dei suburbia, che non si perde nei narcisismi e negli ombelicalismi di tante cose e cosucce viste anche a questo Venezia Film Festival. E alla fine del press screening, lungo e sacrosanto applauso.
Nell’ultimo anno della dittatura militare (1982), in un regime già vacillante in cui comincia la resa dei conti, Arquimedes Puccio, lavoratore dei servizi segreti con parecchi figli a carico, capisce che è ora di riciclarsi. Di trovare nuove fonti di denaro. Avendo, si immagina, sviluppato un certo know-how durante il regime in fatto di torture, rapimenti di oppositori e altre sporchissime faccende, pensa di mettere a frutto quanto ha imparato mettendo su un’aziendina familiare insieme a un paio di amici. Un’azienda di rapimenti a scopo di lucro. Tutti in famiglia sanno, la moglie, i figli, le figlie. Il rampollo più grande, star della squadra argentina campione di rugby, vien subito coinvolto come braccio destro, incaricato di individuare i bersagli grossi e di far da picchiatore quando occorre. Un paio di loschi figuri, probabilmente pure loro implicati nei servizi, vengono arruolati come manovalanza. Un rapimento, due, tre. Si terrorizzano i familiari degli ostaggi fingendosi un gruppo armato rivoluzionario, si incassano i soldi, si ammazzano i rapiti. Una catena di montaggio del massacro e dell’accumuazione barbara del capitale, il boss e i suoi non si fermano davanti a niente, alla tortura, all’inganno, e intanto in cassaforte i soldi si ingrossano. Si pensa a certi clan parentali mafiosi criminali, o alla Ma’ Barker e i suoi figlioli portati in cinema una vita fa da Roger Corman (Bloody Mama). Ma qui è peggio, non c’è nemmeno il cattivo romanticismo che si accompagna spesso a chi si mette contro la legge. Qui c’è solo l’azzeramento di ogni morale, la pura logica solidale familiar-genetica, l’avidità. E però quello che sconvolge del film di Trapero, e che lo rende opera notevole, è che la mostruosa famiglia dei Puccio (questo il nome) ha tratti di assoluta normalità, e mentre là sotto in cantina l’ostaggio torturato urla, la mamma cucina, si informa amorevolmente di come stanno i figlioli, e tutti insieme si guarda la tv, e il papà dà il bacio della buonanotte. Il male si è fatto, semplicemente, quotidiano, si è (me lo consentite?) banalizzato, l’omicidio è diventato pratica quotidiana, ordinaria, un lavoro tra i tanti possibili, solo più impegnativo, sporco e lucroso. Non c’è mai traccia di moralismo prdicatorio nel film, tutto vien rappresentato fattualmente, orrore dopo orrore. E il cinema che viene in mente, per affinità e analogia, è quello greco degli anni recenti, con i suoi capifamiglia che intrappolano nel proprio reticolo di manipolazioni, inganni e occulte persuasioni le mogli, i figli, e mi riferisco a Dogtooth di Yorgos Lanthimos e a Miss Violence di Alexander Avranas. Pablo Trapero gioca anche con l’architettura narrativa e, come si vede sempre più spesso nel cinema da festival, destruttura ogni linearità, rimescola i piani temporali con fughe in avanti e repentini salti all’indietro. In questo modo riuscendo a mantenere intatta la tensione, e l’attenzione dello spettatore, in un racconto che altrimenti sarebbe a forte rischio di ripetitività. El Clan perde quota quando pretende di fornirci chiavi interpretative troppo nette e monodimensionali, quando ci suggerisce che il mostro Arquimedes Puccio è il frutto marcio e il figlio legittimo di un regime che ha abbondantemente varcato i confini della pratica criminale su larga scala. Vero, gli aguzzini di mestiere probabilmete sviluppano un’assuefazione all’esercizio della violenza che li rende cieche, e dunque pericolosissime, macchine distruttive. Ma, in casi come questo, c’è sempre di più e dell’altro, c’è il male, ecco. Mancano ancora parecchi film del concorso, però è già ipotizzabile l’inserimento di El Clan in zona premi. E Guillermo Francella, il manipolatore boss di famiglia, potrebbe portarsi a casa il premio come migliore attore (anche se il Fabrice Luchini visto ieri sera in L’hermine è travolgente). (Stamattina al press screening c’era anche lo scrittore Emmanuel Carrère, uno dei giurati, più inquartato di quanto pensassi).

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