Desde Allá (From Afar), un film di Lorenzo Vigas. Con Alfredo Castro e Luis Silva.
Melodramma glaciale fuori e esplosivo dentro nella Caracas più degradata. Dove un cinquantenne uso a pagare ragazzi perché si spoglino davanti a lui si perde per un adolescente violento di nome Elder. Sarà l’inizio di una storia-duello dalle molte svolte e colpi di scena. Materia narrativa incandescente, che il venezuelano Lorenzo Vigas controlla attraverso una messinscena di massimo rigore. Grande Alfredo Castro, l’attore-feticcio di Pablo Larrain. Voto 8

il regista Lorenzo Vigas
Mi sono avviato alla proiezione pigramente, senza aspettarmi granché, più che altro per dovere cinefilo e bloggistico (mi do come regola vincolante ai festival di vedermi tutti i film del concorso, e del resto delle sezioni il più possibile). Non immaginavo che mi sarei trovato davanti uno dei film più importanti di questa mostra, di sicuro il più disturbante, il più urticante, il meno accomodante. Un colpo a cuore e viscere. La vera rivelazione di Venezia 72 insieme al turco Abluka (Desde Allá è il primo lungometraggio del quarantottenne venezuelano Lorenzo Vigas, uno che il cinema l’ha scoperto dopo aver studiato biologia molecolare, ed è uno strano e interessante tragitto). Sì, avevo letto la sinossi che informava di questa storia ambientata a Caracas, nel Venezuela in piena crisi economica, con al centro un cinquantenne che paga ragazzi adolescenti perché si spoglino davanti a lui e si lascino guardare, senza però toccarli e farsi toccare. Ma certo mai avrei pensato a un film di questa potenza, benché trattenuto e raffreddato attraverso il rigore di una messinscena impassibile, fenomenica, oggettiva, senza fremiti apparenti. E film per niente compiacente verso la sensibilità media, unica e dominante. Che non cede alle correttezze politiche a al bon ton ideologico e osa mostrarci un’omosessualità laida e sordida, sporcata dal denaro, dalla manipolazione, dall’interesse, dall’uso reciproco e consapevole. Storia tra un uomo e un ragazzo per i quali si fa fatica a simpatizzare, che si muovono in universo lurido e spesso hanno loro stessi comportamenti luridi se non criminali, e dunque ci troviamo a qualche miliardo di miglia di distanza dall’immagine oggi egemone di un’omossesualità caruccia, matrimoniabile, sostenibile che rivendica diritti su diritti con i suoi testimonial belli, famosi e presentabilissimi. No, signori, questo è il film di una passione impresentabile e losca, tanto per cominciare qui siamo in un quartiere degradato di Caracas mica nelle zone bon ton di Londra, un postaccio dove il cinquantenne Armando, single, anzi solo, di mestiere fabbricante di protesi dentarie, va a pescare per strada i suoi adolescenti. Con un bel po’ di banconote in pugno come esca e argomento assai convincente. Lo vediamo mentre a casa fa spogliare un ragazzo giovanissimo secondo un rituale collaudato (“girati verso l’armadio, adesso togliti la canottiera, giù i pantaloni, ma non troppo”), e mentre si masturba nel guardarlo, ma impedendo e impedendosi ogni contatto fisico. Scena peraltro girata nel massimo gelo, senza indugiare sul corpo né dell’uno né dell’altro, senza concessioni voyeuristiche. Armando ha la fobia del noli me tangere, desidera quei ragazzi ma non ne vuole il corpo, solo la visione. Quando incontra un altro adolescente di nome Elder ripete lo stesso copione. Ma Elder è più tosto degli altri, più pericoloso e protervo, indurito com’è dalla vita da strada, da una famiglia sfasciata e quant’altro, e minaccia e rapina Armando senza concedersi alla sua vista. Eppure Armando tornerà a cercarlo, e si farà umiliare ancora e ancora. Rischiando la dignità e anche di più. Sembra autolesionismo, forse è oscura percezione di una seduzione possibile. O una sfida. Il punto di svolta sarà quando Elder, picchiato dai fratelli della ragazza che ha messo incinta, verrà portato da Armando a casa sua e curato. Qualcosa si stabilirà tra i due, ma ci sarà ancora un scontro durissimo quando il ragazzo verrà scoperto da Armando nell’atto di forzare la cassaforte, e balenerà un coltello, e ci sarà uno squarcio. Non aggiungo altro, ma siamo ancora nella fase prima di una contorta, tormentosa storia (no, non chiamiamolo amore) che riserverà parecchie sorprese e colpi di scena. Con il paradosso che sarà Elder a innamorarsi (uso questa parola perché il lessico non me ne dà altre per descrivere quello che succede) di Armando, e che da lui verrà respinto, per quella paura del contatto fisico, per la repulsione della vicinanza. Intorno, il panorama umano e disumano degli amici di strada di Elder, della madre, dei parenti di Armando. E del padre di Armando, appena rilasciato dal carcere dov’è stato per motivi che non ci verranno detti ma di sicuro di massima gravità, visto che il figlio lo odia al punto da desiderarne la morte. Tutto realizzato e mostrato con la massima economia espressiva. Dialoghi minimi e funzionali, lunghi silenzi da parte di Armando, e una lingua aggressiva e costantemente intimidatoria da parte di Elder. Messinscena di un rigore che rasenta l’asetticità e l’avalutività. Sono i fatti, sono gli sconvolgenti turning point di questo racconto a urlare da soli, e per via della propria forza, in un film che è parco fino all’anoressia. Ma l’amore-duello tra i due maschi, uno giovane e l’altro assai meno, incendia lo stesso lo schermo e arriva a turbarci come poche volte è capitato al cinema negli ultimi tempi. Suscitando parecchie domande: può esserci amore anche quando c’è di mezzo il denaro? è credibile la conversione di Elder dall’odio e perfino la repulsione per Armando alla passione per lui? cos’è che spinge Elder verso Armando, e cosa spinge Armando a scappare da lui? Quando sembra che tra i due si sia instaurato un simulacro di stabilità e perfino di normalità di affetto (e di sesso), tutto salterà di nuovo per aria, in un pre-finale e in un finale che ti lasciano senza fiato e ti torcono le budella. Signori, questo è un film grandissimo, altro che i bellocchismi applauditi come capolavori a questo festival. Concede poco, anzi niente al medio sentire, contraddice, nega e perfino distrugge un bel po’ di certezze ideologicamente consolidate. Ma il cinema (anche) questo dev’essere, deve aprire nuovi varchi nelle percezioni nostre, e di tutti. Se no che si viene a fare ai festival? Certo, il dubbio che una storia così non possa esistere in natura – intendo, nella realtà – e che si configuri come la proiezione schermica di una fantasia gay, è piuttosto forte. E però quante volte abbiamo visto storie inverosimili diventare vere? Quel che importa è che una narrazione abbia una sua coerenza interna, non che rifletta il mondo, e qui la coerenza c’è. Alfredo Castro è immenso nella sua recitazione atona e assente, e invece intimamente pulsante, che ha imparato a mettere a punto nei film di Pablo Larrain, da Tony Manero a Post-mortem al recente, e non ancora arrivato in Italia, El Club. Io spero che Desde Allá si prenda un premio importante, se lo merita, e lo aiuterebbe a superare le polemiche che di sicuro si tirerà addosso. Nei credits nomi di peso del cinema latinoamericano: il messicano Guillermo Arriaga, lo sceneggiatore di Babel e 21 grammi, che con Lorenzo Vigas ha collaborato allo script, ed è un avallo che conta. E un altro nome illustre benché ancora giovane. Quel Michel Franco, pure lui messicano, che allo scorso Cannes ha sconcertato molti con il suo Chronic, portandosi comunque a casa il premio per la migliore sceneggiatura, e che qui figura come coproduttore.
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