Mostra di Venezia 2015. Recensione: BEHEMOTH. Dalla Cina un capolavoro (troppo) annunciato che potrebbe piacere alla giuria

20550-Behemoth_120536-Behemoth_5Behemoth (Beixi moshuo), di Zhao Liang. Concorso.
20526-Behemoth_2I rumors qui al Lido lo danno possibile Leone insieme al Rabin di Amos Gitai. In effetti ha tutti i segni del perfetto film da festival: rigore autoriale, impegno socio-politico (la denuncia dei guasti ambientali prodotti dalla modernizzazione in Cina), estremismo estetico. E niente parole, eccettuate quelle poche salmodiate da una voce off. In più, riferimenti alla Bibbia e a Dante. Applauditissimo alla proiezione stampa. Ma troppo capolavoro annunciato per esserlo davvero. Voto 6+
20532-Behemoth_4Il perfetto film da Leone, con tutti gli ingredienti incorporati per convincere le giurie festivaliere. Massima severità autoriale (trattasi di documentario senza parole, solo suoni e rumori, e ogni tanto una sentenziosa voce off), engagement politico-ambientalista garantito (si testimoniano e denunciano i guasti della modernità e della industrializzazione in Cina), estremismo estetico (panoramiche immense di terre, acque e cieli e manufatti umani), sfida al regime (Pechino di sicuro non sarà entusiasta di questo lavoro). Già al press scereening ieri sera c’è stato un applauso lunghissimo (e il mio vicino, che aveva dormito quasi tutto il tempo, non appena risvegliatosi ha commentato entusiasta con gli amici: “bellissimo! rigorosissimo!”), si prevede che anche molti giurati siano rimasti altrettanto colpiti. Vedremo sabato sera. Io spero che a vincere sia l’Amos Gitai di Rabin, the Last Day (o, in subordine, Trapero, Vigas, Kaufman), non questo Behemoth, di sicuro notevole e importante, come no, ma oberato da troppi vezzi e bovarismi intellettuali e troppo capolavoro aspirazionale. Di quei film che si presentano con lo stigma impresso dell’Opera Massima, e dunque sommamente ricattatori e intimidenti verso chi guarda. Behemoth è un mostro biblico del Libro di Giobbe (i mostri biblici piaccion tanto ultimamente al cinema, anche il Leviathan ha dato il titolo a ben due film, entrambi magnifici, prima il documentario di Lucien Castaing Taylor e Véréna Paravel, poi il film del russo Andrey Zvyagintsev), scelto dal regista cinese Zhao Liang per indicare la modernità distruttiva e prepotente che sta cambiando i connotati del grande paese suo, che lo sta trasformando in un’enorme plaga di cave, agglomerati rugginosi e inquinanti, macchinerie sputanti veleni, insediamenti edilizi che si son sviluppati e moltiplicati come metastasi. Avrebbe potuto costruire un classico documentario minuzioso e didascalico, Zhao Liang, sceglie invece un’altra strada più impervia ma anche assai più redditizia ai festival e nei circuiti arthouse internazionali, quella dell’apologo, della costruzione di un racconto visivo che si fa ammonimento, allarme, grido, lamento funebre per un mondo in via di sparizione inghiottito dal moloch del progresso. E, dopo aver citato la Bibbia nel titolo, si appoggia curiosamente a un altro testo capitale dell’Occidente, la Divina Commedia. Ecco infatti, mentre sullo sfondo esplosioni a catena sollevano nuvolaglie nere in una cava di carbone, apparire a inizio film un uomo nudo disteso e una voce fuori campo salmodiare “nel mezzo di cammin di nostra vita” introducendoci a un nuovo Inferno: quello che le immagini ci stanno mostrando e continueranno a mostrare. Processioni di camion, eserciti di lavoratori-schiavi che scavano, sterrano, caricano, scaricano, rovinando quella che era un’arcadia di jurte, cavalli e cavalieri mongoli, pascoli e greggi. Si procede come in una partitura visiva, con panoramiche alternate a dettagli ravvicinati, in un incubo alla Bosch sporco, polveroso, lurido, malato. Si continuerà con le lingue di fuoco di un’acciaieria, con i volti anneriti e spettrali dei minatori, con le loro silenziose proteste per le morti e le malattie a catena non riconosciute dalle autorità, con le riprese delle baracche in cui disumanamente vivono. Intanto la litania fuori campo continua sulla falsariga dantesca, maledicendo l’orda avanzante dell’industrializzazione e la hybris del progresso. L’ultima parte è un viaggio in una di quelle immense città-fantasma – pare siamo migliaia – costruite dagli speculatori e subito abbandonate per mancanze di acquirenti (e lo scoppio della bolla edilizia è tra le cause del recente crollo delle borse asiatiche, in primis quella di Shanghai). Fate conto le nostre periferie più agghiaccianti, con torri altissime e anonime e tutte uguali, e però moltiplicate per cento, per mille. Un deserto di cemento e asfalto dove solo gli addetti alla pulizia delle strade si aggirano come zombie. Film maestoso, anche troppo, che dichiara immediatamente la sua ambizione a farsi denuncia perfetta della peggio Cina di oggi. Non mancano le sequenze grandiose. E però infastidiscono la pretenziosità dell’operazione, la sua programmaticità, l’estenuato formalismo (ci sono riprese fatte, mi pare, attraverso il vetro onde creare effetti di scomposizione), l’ambizione metaforica. Per non parlare dell’uomo che, con in spalla uno specchio, vaga per inferni e purgatori dell’immenso paese. Che son cose che non si vedevano dai film da cineforum degli anni Sessanta. Che poi, scusate, è fin troppo facile procacciarsi consensi e applausi contrapponendo la felice arcadia delle campagne verdi punteggiate dal bianco delle greggi alle fabbriche e alle miniere sputafuoco e sputapolvere. Non sarà cool ricordarlo, ma se centinaia di milioni di cinesi nelle ultime decadi sono usciti dalla povertà il merito va anche alla tanto biasimata industrializzazione.

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