
il venezuelano Lorenzo Vigas con il Leone d’oro
A bocce ormai ferme – i vincitori già li conoscete e, se non li conoscete, potete dare un’occhiata al mio precedente post con la lista dei premi ufficiali – sarà il caso di commentarlo, questo palmarès di Venezia 72 stilato dalla giuria presieduta da Alfonso Cuaron e con dentro pezzi da novanta come Nuri Bilge Ceylan e Hou Hsiao-hsien. Li abbiamo appena visti, i vincitori, schierati al completo (mancava solo Luchini) alla conferenza stampa post-cerimonia, dove le domande erano soprattutto per il Leone a sorpresa, il venezuelano Lorenzo Vigas – autore di un film magnifico, Desde Allá, ma snobbato come robuccia insignificante dai molti italiani caduti invece in deliquio per Bellocchio e Skolimowski. Chi proprio non si aspettava questo verdetto, e sono tanti, parla di lobby latino-americana capitanata dal messicano Alfonso Cuaron che avrebbe fatto di tutto e di più per premiare il venezuelano Vigas (prodotto proprio da messicani) e l’argentino Pablo Trapero di El Clan. Non essendo nato ieri e, come si diceva dalle mie lombarde parti natali, non essendo venuto giù con la piena, non nego che Cuaron possa avere avuto il suo peso, e però i due film sono formidabili, e se lobbying c’è stata il risultato è ottimo.
Desde allá (Da lontano) grandissimo, sacrosanto Leone. L’avevo messo al secondo posto nella mia lista, questo film che mi ha scosso come pochi, e che ho ammirato e perfino adorato per il rigore con cui ha trattato una materia esplosiva come l’amore (amore?) tra un cinquantenne di Caracas e un marchettaro sì e no diciottenne. Vista la glaciale accoglienza soprattutto da parte della stampa italiana (parlo della maggioranza, ovvio) non osavo nemmeno pensare che avrebbe potuto vincere il Leone, e invece never say never, e mai sottovalutare le giurie. Che son capaci di papocchi ignobili quanto di colpi d’ala inattesi, e spesso delle due cose insieme.
Amos Gitai, esclusione immeritata. Mi spiace, in un palmarès che condivido nei suoi premi più pesanti (meno in quelli minori), che non si sia trovato un posto per Amos Gitai, il quale con Rabin, the Last Day ha realizzato un film importante e potente, il migliore tra gli ultimi suoi. E mi viene un pensiero malevolo, anzi orrendo. Che questa esclusione possa avere a che fare con la non simpatia – uso un garbato eufemisno – che ormai circonda Israele in tutto l’Occidente. Ma è un pensiero che voglio scacciare subito.

Pablo Trapero, Leone d’argento
Pablo Trapero con El Clan ottimo Leone d’argento. Avrebbe potuto anche vincere il Leone d’oro, è arrivato secondo, e va comunque bene. Perché El Clan, agghiacciante ricostruzione dei misfatti di una famiglia criminale nella Buenos Aires anni Ottanta, è tra il meglio di Venezia 72, e un film che resterà e girerà il mondo.
Finalmente un premio a Charlie Kaufman: il suo Anomalisa ha convinto tutti. Il genio contorto di Synecdoche, New York è tornato con un film – codiretto con il giovane Duke Johnson – di massima semplicità e godibilità, e insieme stratificato e complesso. Una storia d’amore girata in animazione stop-motion, realistico e insieme evocativo, con i dialoghi più belli che si siano sentiti da un bel po’ di tempo in qua. Attenzione, poi il film svolta e diventa un apologo allarmante sull’oggi e il vicino domani. Sarà un successo.
Esclusi i venerati maestri: oltre a Gitai, fuori dal palmarès Sokurov e Skolimowski. Il grande russo ha presentato un film anarchico, pazzo e a tratti magnifico a vedersi, ma anche cinico e beffardo, un film per il quale qui al Lido parecchi hanno stravisto e sragionato. Invece va bene che sia rimasto fuori dal palmarès per far posto a nomi finora meno esposti e più meritevoli, tanto il Leone d’oro Sokurov l’ha già vinto in passato con Faust. Quanto a Skolimowski, adorato dai jeunes critiques, ha mostrato muscoli registici ancora in forma con il suo 11 minutes, virtuosisticamente girato ma del tutto disinteressato ai suoi personaggi e alle loro storie, bello e freddo come una lastra di marmo. Nel 2010 mi pare che Skolimowski si fosse portato a casa ben due premi da Venezia on Essential Killing, stavolta paga pegno, e non è il caso di scandalizzarsi.
Molto bene anche il premio speciale della giuria al turco Emin Alper per Abluka, una delle due rivelazioni del concorso, essendo l’altra ovviamente il film vincitore. Avrebbe meritato anche un premio più importante, ma al posto di chi: di Trapero? di Kaufman? di Lorenzo Vigas? Mi rendo conto di quanto sia stato difficile per la giuria incastrare il puzzle, e allora bene così.
Niente al cinese Beixi moshuo (Behemoth), uno dei favoriti (meglio così, non meritava). Oggi in sala stampa lo si dava come sicuro Leone d’oro. E invece non si è preso niente, neanche un premio minore. Non sarò certo io a lamentarmi, che non l’ho per niente amato, pretenzioso com’è. Un capolavoro troppo annunciato. Il film più sopravvalutato del concorso.

Valeria Golino con la Coppa Volpi
Italia: Coppa Volpi a Valeria Golino, ed era l’unica a meritarsi qualcosa. Niente a Bellocchio. Ma andiamo, davvero qualcuno pensava seriamente che l’imbarazzante Bellocchio di Sangue del mio sangue sarebbe entrato nei radar della giuria? O che Gaudino trionfasse? O che il Piero Messina di L’attesa si beccasse qualcosa? Ringraziamo il cielo che sia stata data la Coppa Volpi, peraltro meritata, a Valeria Golino, che da sola regge Per amor vostro, film non proprio risolto. Il ben noto odio per le attrici italiane da parte dei giovani critici italiani si è manifestato anche stavolta con fischi e buuh in sala stampa all’annuncio. Era successo lo stesso l’anno scorso con Alba Rohrwacher. Allora ribadiamolo: cari ragazzi, la Golino non ha rubato niente, se mai meditate sul premio Mastroianni assegnato al ragazzino protagonista dell’ignobile Beasts of No Nation da voi tanto applaudito. Tornando ai nostri quattro in concorso: il meglio è stato Guadagnino, con un film però che tiene più d’occhio il mercato anglofono che le giurie dei festival. Ne risentiremo parlare.
Il premio peggiore: quello di miglior attore emergente al ragazzino di Beasts of No Nation. Lui, Abraham Attah, ghanese basato oggi negli States, è anche bravo, fa il dovere suo, è il film a essere insopportabile. Visto che trattasi di grossa produzione, immagino che un riconoscimento fosse atteso, e allora meglio questo al ragazzino che un altro di maggior peso. Almeno si è disinnescata la mina vagante, che se no l’orrendo Beasts ci finiva magari in zona Leone.
Due premi al francese L’Hermine sono troppi. Ottima la Coppa Volpi a Fabrice Luchini come migliore attore (quale giudice in ermellino è irresistibile), in un concorso dove le grandi intepretazioni maschili non mancavano di sicuro, dall’Alfredo Castro di Desde Allá al Guillermo Francella di El Clan, al Ralph Fiennes di A Bigger Splash. E però era il caso di premiare anche il regista Christian Vincent per la sceneggiatura? Che ha dialoghi brillantissimi, intendiamoci, ma che manca di compattezza: che c’entra mai l’innamoramento del giudice per la giurata con il resto? Che cos’è L’Hermine, un courtroom-movie o una rom-com? Due premi allo stesso film in un palmarès vanno dati solo in casi eccezionali, altrimenti vuol dire buttar via una possibilità per altri, ed è questo il caso.
Però un premio all’Alicia Vikander di The Danish Girl lo si poteva dare. Il film sul primo uomo d’Europa che desiderò farsi donna – correvano gli anni Venti – non è mica dispiaciuto, di sicuro farà la sua bella corsa nella stagione dei premi, però era chiaro che nel palmarès grosso non avrebbe trovato spazio. Ma alla meravigliosa Alicia Vikander, che nel film batte Eddie Redmayne, si poteva dare la Coppa Volpi. Sarebbe stata una mossa furba per il festival, perché Vikander farà parecchia strada, e Venezia avrebbe potuto fregiarsi del merito di averla lanciata (come capitò anni fa con il Michael Fassbender di Shame, entrato a Venezia come attore di buona fama e uscitone star). Certo, si sarebbe dovuto accantonare la Golino, e allora chi li sentiva gli strilli della stampa italiana?
Ecco, please, stavolta niente piagnistei sull’Italia trascurata in zona premi. Abbiamo preso esattamente quel che ci meritavamo, niente di più, niente di meno. Che adesso non si cominci con la solita sceneggiata, per favore.
Conclusione: l’unico vero errore è stata l’esclusione di Amos Gitai (e più ci penso e più lo ritengo ingiusto), gli altri – il doppio premio a L’Hermine e quello al ragazzino di Beasts of No Nation, li si può anche considerare fisiologici e far rientrare nella quota consentita a ogni giuria.
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