
Free in Deed

The Childhood of a Leader
Stavolta non ce l’ho fatta a redigere, come in altri festival, la mia solita lista di recensioni veloci dei film del giorno. Per motivi di tempo mi sono concentrato sulle recensioni del concorso e di qualche titolo extra. Comunque di film di Orizzonti, la seconda sezione della Mostra – competitiva, con palmarès stilato da una giuria quest’anno presieduta da Jonathan Demme -, ne ho visti un bel po’, e spero di scriverne al più presto. Intanto andiamo a commentare il verdetto di una sezione dove di cose belle ce ne son state parecchie, tant’è che nella prima settimana della Mostra la media di Orizzonti era parecchio sopra quella del concorso (dove passavano titoli terribili come Beasts of No Nation, Equals e via così). Sicché alla fine i film premiabili erano più di uno. La giuria con Demme presidente ha poi fatto le sue scelte, discutibili ma non scandalose. Spiace che siano rimasti fuori dal palmarès Mountain dell’israeliana Yaelle Kayam, il bellissimo danese Krigen – A War che prende di petto il tema incandescente delle nostre guerre lontane da casa, in questo caso in Afghanistan, e che di sicuro sfonderà dappertutto. E spiace per l’iraniano Wednesday, May 9, un melodramma di povertà e umiliazioni alla maniera di certo nostro cinema popolare anni ’50, benissimo scritto e girato, e per l’algerino Madame Courage, sorta di Accattone nelle periferie degradate dell’Algeri di oggi (Madame Courage non è il main character, non è una Mamma Roma d’Algeri, ma una delle droghe sintetiche potenzianti o stordenti che il ragazzino protagonista ingurgita). Ho l’impressione che la giuria abbia privilegiato i film euroamericani, trascurando Asia e Africa, astenendosi da quel terzomondismo che di solito ai festival conquista (difatti, non è entrato nel palmarès nemmeno l’indiano Interrogation, robusto, anche troppo, dramma politico di denuncia, di una brutalità – praticata da indiani su altri indiani – che lascia sgomenti).
Premiato come migliore film Free in Deed, e ci sta. Stordente. Ricostruzione di un tristerrimo caso di cronaca vera capitato nel Tennessee nel 2003, nella cintura del cristianesimo tradizionalista. Nello specifico, in una chiesa battista dove si praticava una religiosità appassionata e assai fisica, corporale, con tanto di sedute esorcistiche per scacciare il male dai posseduti o presunti tali. No, non aspettatevi un remake di Linda Blair-William Friedkin, qui semmai siamo nel campo del cinema rigorosamente antropologico, con parecchie analogie con Il demonio girato dal nostro Brunello Rondi nei primi anni Sessanta (l’avrà visto il giovane regista neozelandese di questo film indie americano?) o con il più recente Oltre le colline del rumeno Christian Mungiu Una madre afroamericana single con figlio affetto da una specie di autismo violento, disperata dopo averle tentate tutte con ogni possibile medico, lo porta in chiesa perché venga sottoposto al rito e liberato dai suoi demoni. Finirà malissimo. Film claustrofobico, ossessivo. Battuto senza tregua dai canti, dai ritmi implacabili, dalle danze rituali della comunità battista, dalle crisi aggressive del ragazzo. Avrei preferito premiassero l’israeliano Mountain, ma non mi lamento. Free in Deed ha molti meriti, compreso quello di non fare del razzismo culturale verso certe forme di cristianesimo estremista. Proiettato gli ultimi giorni del festival, quando un bel po’ di stampa se n’era già andata via, e dunque passato pressoché inosservato. Piacerà in America, in Italia è di quei film che non trovano spazio e non convincono nemmeno il pubblico delle sale d’essai. Troppo disturbante e non abbastanza ideologicamente corretto.
Premio per la migliore regia a The Childhood of a Leader: una rivelazione? Brady Corbet, attore (lo abbiamo visto in Giovani si diventa di Noah Baumbach, in Sils Maria, in Eden), 27 anni, americano, gira la sua opera prima da regista e fa il botto a Venezia. Portandosi a casa due premi, questo di Orizzonti e il leone del futuro come migliore opera prima assegnatogli da una giuria presieduta da Saverio Costanzo. Strano prodotto, più vicino a certo cinema autoriale europeo che ai manierismi di quello indie americano, un period movie ambientato nell’immediato post guerra (prima guerra mondiale) durante le trattative di Versailles tra vincitori e vinti, e che indaga l’infanzia di un bambino differente con dentro un che di insano, di mostruoso, di alterato. Un bambino che da grande diventerà un leader politico totalitario. Semplificando molto, infanzia di un simil-Hitler. Oppure: così può nascere un Hitler, dunque occhio a come trattate i vostri figli. Liberamente tratto da più testi (tra cui uno di Sartre), e messo in scena da Brady Corbet con una consapevolezza stilistica e formale che non ti immagini in un ventisettenne. Ci respiri un qualcosa di Visconti, di Losey, della Cavani anni Settanta, dei loro torbidi intrecci tra privato e politico. Ma il film che viene in mente subito è Il nastro bianco di Haneke, con i suoi infanti assassini che, come spiega la voce off finale, prefigurano il mostro nazista. Non siamo però a quel livello, benché The Childhood of a Leader sia tutt’altro che trascurabile. Il guaio sta nello script, che al solito psicologizza il male e sembra ascrivere i comportamenti malvagi del bambino protagonista (che ama indossare un abito da femmina) all’ambiente, alla madre anaffettiva, al padre traditore e quant’altro. Materia cruciale e delicata, banalizzata da una cornice interpretativa da talk show della fascia pomeridiana, e però Corbet migliora di molto la sceneggiatura con uno stile freddo che mantiene a distanza (letteralmente, visto che le riprese sono quasi tutte in campo lungo, e i personaggi sembrano appartenere a un quadro più ampio che li contiene, comparse di una storia che li sovrasta, e raramente balzano in primo piano) le sue figure maggiori e minori. Un film in cui la messinscena è superiore al racconto. Si raggiunge il punto più alto nell’ultima, magnifica scena, quasi tutta in un vertiginoso piano sequenza, con il ragazzino ormai diventato adulto e tiranno. Che è un Robert Pattinson vitreo dunque perfetto, mentre una musica dissonante e allarmante (il miglior soundtrack di tutto il festival) ci fa sobbalzare. Potrebbe avere un’ottima carriera in America e in Francia. Con Bérénice Bejo nella parte della madre.
Giusto anche il premio speciale della giuria al brasiliano Boi Neon (Neon Bull). Film argutamente anarchico, folleggiante, irregolare, anche il più camp di Orizzonti nonostante non ci mostri la minima sequenza gay. Fischiatissimo e buizzato da pubblico e stampa, per via di una scena di masturbazione di un cavallo (si tratta di rubare lo sperma di uno stallone costosissimo) e un’altra di sesso con una signora incinta. Se il brasiliano Gabriel Mascaro (che a Locarno due edizione fa aveva vinto un premio con Venti di agosto) voleva un filo provocare, c’è riuscito. Siamo nel Nordeste brasiliano, un tempo terra arida di massima devastazione percorsa da campesinos umiliati e offesi, come testimonia il Cinema Novo degli anni Sessanta che lo sceglieva come suo luogo privilegiato di narrazione. Invece adesso che il Brasile ha raggiunto un medio benessere, il Nordeste diventa lo scenario di storie pazzerelle come quella di Neon Bull, con i componenti di un rodeo itinerante e le loro piccole vicende, le baruffe, gli amori, le schermaglie. E lo spettacolo con i cavalli e i tori (e chi ama gli uni detesta gli altri). Con trovate fantastiche, come il giovane bovaro protagonista machissimo che adora realizzare costumi sberluccicanti genere Carnevale di Rio (usando come sua mannequin la primadonna del circo nonché camionista dello stesso) e sogna di fare lo stilista e avere una di quelle macchine da cucire digitali avveniristiche. Cose così. Molto godibile, ma sapete, se ai festivalieri non date il messaggio politico, possibilmente in versione dannati della terra, o l’alta autorialità sussiegosa, è dura strappargli l’applauso. Bene ha fatto Demme a premiare questo film che sembra niente ed è invece pieno di invenzioni.
Premio come migliore attore al francese Dominique Lebrone per Tempête di Samuel Collardey. Non l’ho visto, non saprei dirvi. Pareri raccolti qua e là mi dicono di un film medio, con però un’ottima performance di Lebrone. Spero di poterlo recuperare a Milano alla rassegna Venezia e dintorni.
Resta fuori dal palmarès, oltre ai titoli già detti, il greco Interruption, pretenziosissimo e drammaturgicamente scombinato, e però visivamente notevole.
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