Ritorno alla vita (Every Thing Will Be Fine) di Wim Wenders. In 3D. Con James Franco, Rachel McAdams, Charlotte Gainsbourg, Marie-Josée Croze, Patrich Bauchau. Al cinema da giovedì 24 settembre 2015.
Ricordo ancora il gelo con cui fu accolto al press screening alla scorsa Berlinale. Eppure Ritorno alla vita non è niente male, il più bergmaniano dei film di Wim Wenders (era molto peggio il retoricissimo e sopravvalutato Il sale della terra). Tomas incappa in un incidente da cui uscirà devastato. Ottimo James Franco. Un dramma psicologico girato incredibilmente in 3D. Voto 7
Un film male amato, fin dalla sua prima mondiale (fuori concorso) alla scorsa Berlinale, dove venne accolto gelidamente dalla stampa. Eppure questo nuovo Wenders (in 3D!), tornato al non-documentario dopo Pina e Il sale della terra, è decorosissimo, anche se non all’altezza dei risultati maggiori del suo autore, peraltro ormai lontanissimi nel tempo (in my opinion, l’ultimo vero grande film wendersiano resta Lo stato delle cose). Forse oggi WW sconta anche l’essere stato a lungo, per decenni, largamente sopravvalutato, e chi lo amava forsennatamente e acriticamente adesso gli si rivolta contro oltre ogni ragionevolezza, con il livore dell’innamorato deluso. Sì, questo film ha il torto, agli occhi del recensore rigoroso e autorialista vecchia scuola, e anche dei ragazzini e ragazzacci della nouvelle crtique, di trattare di sentimenti, cosa, si sa, ritenuta massimanente sconveniente e volgare, anche quando – come in questo caso – confezionata col massimo della signorilità registica. A me invece è sembrato il più bergmaniano dei suoi lavori, anime lacerate e rose dalla colpa e incapaci di non farsi del male in un paesaggio, almeno nella prima parte, da grande nord sommerso dalla neve, tra alti campanili e tetti aguzzi. M’è parso di capire trattarsi di Canada, ma Wenders fa di tutto per farlo somigliare alla Svezia di Luci d’inverno, di La vergogna, di Persona, e ci riesce abbastanza. Tomas, di mestiere scrittore, e di un certo successo, incappa in uno di quegli incidenti che ti stravolgono la vita, te la devastano. Un ragazzino sullo slittino gli taglia la strada e lui non ce la fa ad evitarlo. Quel ragazzino, di nome Christopher, si salva, non il fratellino che era con lui. Come si fa a vivere dopo che hai ammazzato, anche se non ne hai nessuna colpa, un bambino? Sta qui il nocciolo del film, il groviglio che Wenders pazientemente dipana per due ore di film che prendono dieci anni nella vita di Tomas, a partire da quel momento. La sua storia con la fidanzata Sara ne esce distrutta, lui fatica a ricostruirsi, aiutandosi anche con il lavoro, con il mestiere della letteratura. Va a cercare la madre del bambino, ne ottiene, se non il perdono, almeno una tacita comprensione. Trova una compagna, con una figlia che diventerà anche sua. Ma, come nei romanzi popolari, il passato ritorna e presenterà i conti. Da quel manierista che è, che è sempre stato, Wenders impagina il suo dramma psicologico in quadri di levigata perfezione, usa (come ha sempre fatto, mutuando la lezione di Antonioni) il paesaggio come estensione e visualizzazione dell’interiorità dei personaggi, non scade nel sentimentalismo, riduce al minimo le parole, asciuga il più possibile. Non va granché a fondo negli abissi mentali e nelle lacerazioni del suo protagonista e degli altri, del resto non è mai stato un indagatore di cuori e anime, ha sempre navigato con la sua cinepresa sulla pelle, sulla superficie. Ma questo è un film onesto, sobrio, che merita di essere visto. Anche ben recitato da un James Franco ormai inquartato, e però più maturo e capace di sottigliezze e sfumature. A Charlotte Gainsbourg tocca, ovviamente, la parte della mater dolorosa.
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