Recensione: WOMAN IN GOLD. Film convenzionale che spreca un tema importante (quello delle opere trafugate dai nazisti)

DF-01551Woman in Gold, un film di Simon Curtis. Con Helen Mirren, Ryan Reynolds, Katie Holmes, Daniel Brühl.
DF-00656La battaglia legale ingaggiata da Emma Altmann, ebrea viennese riparata in America al tempo delle persecuzioni, per rientrare in possesso di un quadro di Gustav Klimt trafugato alla sua famiglia dai nazi. Storia importante, ma sprecata in un convenzionale period-movie (con incursioni nel court-movie) dove una Helen Mirren gigioneggia incontrollata. Voto 4
WIG-067_DF-01366Sulla carta, una di quelle implacabili e inarrestabili macchine da Oscar in cui si è specializzato Harvey Weinstein, dove si frullano ingredienti di sicura presa sul pubblico bon ton internazionale con ansie di legittimazione culturale e di impegno civile. Stavolta: la guerra individuale e si direbbe persa in partenza di una donna contro le avversità e le stolte burocrazie, e invece vittoria; più la rappresentazione di un’epoca feroce e però sempre in perfetti costumi e squisiti interni ed esterni; più l’Arte come opposizione e argine alla Barbarie, e sullo sfondo, ma neanche tanto, la Shoah. Invece questo Woman in Gold non lievita mai, non abbandona mai il suo pigro andamento, non introduce un sia pur minimo scarto rispetto alla medietà, adagiandosi in una scrittura mediocre e nel rifiuto si direbbe programmatico di ogni azzardo registico e narrativo. Uno dei film più convenzionali e tediosi di questo anno cinematografico, che riesce nella difficile impresa di buttar via un soggetto importante e interessante come quello della restituzione delle opere d’arte trafugate dai nazisti, tema incandescente che ha visto nelle ultime decadi messi sotto accusa stati, banche, collezionisti, istituzioni nazionali e internazionali. Una Helen Mirren con insopportabile aria mattatoriale da voglio-vedere-se-non-mi-danno-il-secondo-Oscar (e invece non lo avrà) e con, almeno nella versione originale, un accento tedesco come se lo immaginano gli attori inglesi, è Frau Maria Altmann, ebrea viennese riparata in America nei tardi anni Trenta per sfuggire ai nazisti occupanti e al già rampante antisemitismo. Non di una famiglia qualunque. Maria appartiene a una dinastia affluente e colta, di modi e di averi raffinati, nipote di una signora che era stata tra le muse di Gustav Klimt tanto da essere stata da lui dipinta in quel Ritratto di Adele Bloch-Bauer affondato in un tripudio di ori sezessionisti diventato famoso come La donna d’oro. Tela che alla famiglia vien portato via in una razzia dai crociuncinati e dopo la guerra consegnata alle autorità austriache e messo in mostra in un museo viennese. Benché inizialmente non così convinta, la ormai californiana Maria decide, anche per via dell’insistenza di un giovane avvocato, di rivendicare, in quanto erede dei derubati, quell’opera che intanto ha assunto un enorme valore di mercato, oltre che essere diventata uno dei simboli della stessa Vienna. Quello che vediamo sono le tappe della guerra intrapresa da Maria, i suoi plurimi avanti-indietro tra Vienna e California (e il ritorno nella città delle persecuzioni è duro), la ricerca di un accordo sempre protervamente respinto dalla controparte, lo slalom tra gli infiniti cavilli legali e burocratici e l’ostruzionismo di chi potrebbe ma non intende fornire informazioni preziose. E naturalmente la posta in gioco – così ci si lascia intendere – è ben più alta, è la condanna di chi è stato a suo tempo colluso con i nazisti, è la chiamata a correo di chi sapeva e non ha agito e ha coperto i misfatti, è la necessità, l’obbligo per un paese di fare i conti con il proprio passato. Che film ne sarebbe uscito se solo si fosse abbandonata la modalità sicura ma soffocante del period movie per sciure con brivido nazi (Woman in Gold si snoda su due piani temporali distinti ma continuamente intrecciati, l’oggi con la signora Altmann in guerra con le autorità austriache per la restituzione del quadro e l’ieri nella Vienna dell’Anschluss con i tedeschi a spadroneggiare, e minacciare e umiliare gli ebrei, e con una fuga per la libertà che non può non ricordarci Tutti insieme appassionatamente). (Spoiler) Finirà com’era prevedibile, e però, diciamocelo, ci si resta un po’ male nel vedere come il Ritratto di Adele Bloch-Bauer ridato a Maria Altmann venga poi venduto alla Neue Galerie di New York di Ronald Lauder (sì, come Estée Lauder) per 135 milioni di dollari. Helen Mirren non si/ci risparmia niente del repertorio della Grande Attrice, Ryan Reynolds quale avvocato ha come sempre l’aria smarrita di chi si sente nel posto sbagliato. Daniel Brühl in una comparsata di nessuna importanza che avrebbe potuto evitare. Un’altra gloria del cinema tedesco di oggi, Moritz Bleitbrau, è un macchiettistico Klimt.

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