Recensione: DHEEPAN di Jacques Audiard, Palma d’oro a Cannes 2015. Gran film

a4bd2a84a9dd99d893845653054001fa477735Dheepan – Una nuova vita di Jacques Audiard. Con Jesuthasan Antonythasan, Kalieaswari Srinivasan. Al cinema da giovedì 22 ottobre.
477267Il film che, giustamente (e nonostante il tifo dei critici per lo smorfioso Carol di Todd Haynes), ha vinto alla scorso Cannes la Palma d’oro. Dallo Sri Lanka devastato dalla guerra alle banlieue francesi dove la sola legge è quella criminale. Odissea da inferno a inferno del tamil Dheepan. Un altro film in cui Audiard indaga la barbarie che si cela sotto la scorza della civilizzazione, e i rapporti di potere e sottomission che si instaurano in un universo chiuso. Voto 8 e mezzo
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Cannes 2015, Jacques Audiard con la Palma

Cannes 2015, Jacques Audiard con la Palma

Finalmente nelle sale nostre il film che ha portato a Jacques Audiard la Palma d’oro, il massimo premio che in precedenti Cannes aveva sfiorato con Un prophète e Un sapore di ruggine e ossa, ma battuto tutte e due le volte da Michael Haneke, prima con Il nastro bianco poi con Amour. Regista grande quanto sottostimato – forse perché autore di un cinema-cinema corporale, di fisica e palpabile immediatezza più che cerebral-intellettualistico, e fors’anche perché non disdegna di flirtare con i generi – , Jacques Audiard ancora una volta fa centro pieno con Dheepan. La parte d’inizio sembra un altro dei film, talmente tanti ormai da aver dato vita a un vero e proprio genere, sui migranti che scappano dalla lande più desolate della terra per raggiungere con ogni mezzo l’opulenta (ma fino a quando?) e democratica (ma fino a quando?) Europa. Sri Lanka, nel nord Tamil, territorio a tradizione indù, colpito da decenni da una guerra e guerriglia con il governo centrale buddista. Ferocie da entrambe le parti, morti a milioni. Il trentenne Dheepan ha perso la famiglia, gli procurano un falso passaporto da cui risulta sposato, e dunque gli aggregano una donna che non ha mai visto che si spaccerà per sua moglie e una bambina atrettanto sconosciuta come figlia. Tre poveri disgraziati che per passare le frontiere e essere accolti in Europa come rifugiati politici devono recitare la commedia del nucleo familiare sofferente. Arrivano in Francia. Dheepan ottiene presto un posto come custode di uno di quei palazzoni della banlieue dove lo stato non arriva (per dirla nei modi del nostro giornalismo indignato), diciamo una Scampia francese. Ci si chiede con un certo allarme a quel punto se anche Audiard non sia passato nelle file del cinema engagé e filoterzomondista e ci voglia illustrare in perfetto spirito didascalico e predicatorio le tribolazione di un migrante venuto dalla parte sfortunata del mondo. Sembra essere così, in parte forse è così, ma grazie a Dio Audiard piega questa storia a se stesso, al suo cinema, alle sue ossessioni, che son quelle di indagare e rappresentare i rapporti di potere che passano attraverso le passioni e i corpi, e ne cava qualcosa che ricorda molto da vicino il suo Un prophète. Lì nella banlieue, nel territorio senza legge, Dheepan e la sua falsa famiglia devono imparare a sopravvivere, esattamente come quando lui militava tra le tigri tamil. Il palazzo in cui abitano è sotto il controllo di una banda impegnata nei soliti loschi traffici, e in lotta con dei rivali ansiosi di sloggiarli dal fortino e di impossessarsi del territorio. Le sequenze di questa parte dimenticata di Francia (s)regolata da leggi neotribali, dove conta l’obbedienza cieca al boss e lo sgarro è punito con la morte, dove gli uomini armati della banda dominante presidiano ingressi, scale e tetto, sono l’Audiard che conosciamo, tra i più bravi a leggere e mettere in cinema le regole criminali, la rete dei poteri sotterranei alla crosta della società legale. Con una regia nitida e precisa, una messinscena potente, muscolare, con poche concessioni a psicologismi o estenuazioni né tanto meno alla paccottiglia sentimentaloide. Qui, più che mai, il cinema di Audiard è puro gioco dei potenti e dei sottomessi, con movimenti tutti interni a una scacchiera rigidamente delineata e regolata. La banlieue di Dheepan è come la prigione di Un prophète, con i suoi capi, i guardiaspalla, i gruppi armati, i servi. Dheepan e la sua falsa famiglia vengono collocati di default in questa ultima casella, e imparano presto a stare al proprio posto per salvar la pelle. Ma tornano nell’operoso custode di caseggiato gli incubi dei massacri vissuti, e fors’anche attuati, nello Sri Lanka,  e quando la frizione fra bande diventa guerra si lascia fagocitare dal ricordo e dalla paura. Compiendo un passo falso che rischia di compromettere la sua sopravvivenza e quella dei suoi. Audiard non sbaglia niente, perseguendo e attuando la sua idea di cinema primario e insieme sofisticato, capace di massima comunicabilità e presa sullo spettatore. Tutta la parte finale, nel fuoco della guerra urbana, è allarmante e poderosa. Forse si concede allo spettatore qualcosa di troppo nell’ultima scena, ma sono dettagli marginali in un film che resta magnifico e straordinariamente denso e compatto.

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