TorinoFilmFestival33. GOD BLESS THE CHILD: recensione. Il primo film del festival è un non-film

God Bless the Child, un film di Robert Machoian, Rodrigo Ojeda-Beck. Sceneggiatura di Robert Machoian, Rebecca Graham. Con Harper Graham, Elias Graham, Arri Graham, Ezra Graham, Jonah Graham, Bruce Graham. Sezione Torino 33 (il concorso).
Schermata 2015-11-20 a 22.31.36Cinque fratelli mollati dalla madre depressa, sarà la sorella maggiore a occuparsi di loro. Un film indie-americano che distrugge ogni narratività e si limita a registrare la giornata dei fratelli abbandonati a se stessi. Solita voluta ambiguità tra documentario e fiction, com’è d’uso oggi in tanto cinema muovo. Estenuante, a momenti devastante. Ma questo si può ancora chiamare cinema? Voto 5
Schermata 2015-11-20 a 22.31.28Prima proiezione stampa, alle 16 di oggi al cinema Classico, ed è stato un inizio festival abbastanza devastante, portando inpressi God Bless the Child tutti i segni e le stimmate del cinema più sfrenatamente indipendentistico-americano. Che mi son morso le mani per essermi giocato il documentario del cambogiano-francese Rithy Panh La France est notre patrie (lo davano alle 17.00) e l’horror firmato da Osgood Perkins, il figlio di Anthony, February (alle 17.,30). Perché al TFF ancora più che in altri festival le sovrapposizioni sono micidiali. Si sa, una delle direzioni prese dal cinema nuovo negli ultimi anni è quello della commistione tra documentario e fictionalizzazione, senza più che si dichiari e si possa distinguere cosa ci sia dell’uno o dell’altra. Docu che sembrano pura finzione, finzioni con tutta l’aria del cinema-verità. God Bless the Child ne è l’ennesima conferma, anzi porta alla radicalizzazione come mai successo prima quello che è ormai un genere, e più che un genere cinematografico, un qualcosa che riflette la stessa impossibilità e incapacità nell’era della simulazione a separare il reale dalla sua rappresentazione. Cos’è mai questo film americano firmato da due registi che immagino tutt’al più trentenni? I cinque bambini-attori protagonisti recitano se stessi, con i propri nomi, sicché ci si lascia intendere che quel che vediamo stia loro realmente accadendo, o potrebbe essere accaduto, che tra attori e personaggi ogni barriera sia stata cancellata. O forse no, perché i ragazzini son figli della co-sceneggiatrice del film e quindi forse (forse) interpretano con i propri nomi una storia di abbandono, di infanzia diseredata, che non appartiene per niente alla loro vita e che è stata totalmente scritta. Tutto però è girato come puro cinema del reale, come presa diretta, e allora: dove sta il vero e dove sta il simulato? Con un dubbio: e se tutta la messinscena, tutto quello che vediamo, fosse un clamoroso inganno? Oltretutto mai come in questo film si è proceduto a ogni decostruzione narrativa, limitandosi a riprendere impassibilmente la giornata di cinque bambini, la più grande è la sorella tredicenne, gli altri quattro fratelli, tutti maschi, son compresi tra i dieci anni e il paio d’anni del più piccolo, Jonah. Siamo in un qualche sobborgo abbastanza desolato ma non così sfigato di una qualche parte di California. La madre dei cinque, di nome Rebecca Graham (come la sceneggiatrice), se ne scappa via una mattina in macchima forse per via di una caduta depressiva, e i pargoli restano abbandonati a se stessi. Per fortuna che la grande, Heather, ha più senso materno e protettivo della fuggitiva, ed è lei a prendersi cura della masnada. Quello che vediamo, per un’ora e mezza, è la camera mobilissima che li segue, registra le loro baruffe in casa, in giardino, i pianti del più piccolo, Heather che si inventa qualcosa da dar loro da mangiare, loro che danno la scalata al congelatore per cavar fuori qualche ghiacciolo. E poi, via per le strade sui pattini, e un giocare e nascondersi in un canneto in un palude secca. Si resta colpiti, devo ammettere, da una certa capacità di auto-organizzazione dei piccoli selvaggi, che mostrano di cavarsela molto bene nell’arte di sopravvivere. È allarmante il maschio più grande, mi pare di nome Eli, sboccatissimo e molto sicuro di sé. Cose così. Per  un’ora e mezza. Scordatevi ogni costruzione drammaturgica, lo storytelling è azzerato in quanto sarebbe snaturamento del reale-così-com’è. Qua e là il film sembra strutturarsi in un qualcosa che somiglia a un racconto, come nella lunga sequenza al canneto con l’arrivo di un uomo che potrebbe anche essere una minaccia e che rimanda a La morte corre sul fiume di Charles Laughton. Ma poi si torna al grado zero narrativo, inesorabilmente. Si arriva alla fine distrutti, appunto come dopo aver passato una giornata in compagnia di bambini scatenati e selvaggi. Certo, il radicalismo dell’operazione non lo si può negare, ma viene anche il dubbio che film come God Bless the Child siano la morte del cinema.

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