TorinoFilmFestival33. Recensione: LA FELICITÀ È UN SISTEMA COMPLESSO. Titolo pretenzioso per un film non riuscito

La felicità è un sistema complesso, un film di Gianni Zanasi. Con Valerio Mastandrea, Giuseppe Battiston, Domenico Diele, Hadas Yaron, Filippo De Carli, Camilla Martini, Maurizio Donadoni. Sezione Festa mobile.
timthumbDelusione massima, questo ritorno di Gianni Zanasi molti anni dopo il riuscito Non pensarci. Improbabile storia di un improbabile consulente  (Valerio Mastandrea) che aiuta due ragazzini a conservare l’azienda paterna in crisi. Pessimo, come quasi sempre il cinema italiano quando deve raccontare la realtà aziendale. Voto 3
timthumb-1Ci si aspettava molto davvero da questo ritorno di Gianni Zanasi, di cui non s’era più visto niente dai tempi dell’ottimo Non pensarci (anno 2008) e dalla serie tv che ne era poi derivata. Invece, delusione massima, e anche un bel po’ di incazzatura. Già il titolo, pretenziosissimo e tortuoso, prometteva male, e difatti ogni sospetto e timore (se non di bufala certo di un film fortemente aspirazionale e wannabistico) è stato confermato in pieno. Peccato, anche perché Valerio Mastandrea è mostruosamente bravo e simpatico, anzi il film lo si può considerare un vehicle al suo servizio, e vien da pensare che anche la sceneggiatura sia stata costruita intorno a lui, con tanti ganci sistemati qua e là perché lui assestasse le sue battute à la Mastandrea. E ancora, tanto per parlare dei più prima di affrontare la spinosa lista dei meno: Zanasi sa girare, sa muovere la macchina da presa, usa grammatica e sintassi cinematografiche per niente elementari, sa costruire per allusioni e lente e successive rivelazioni il racconto, operando secondo un andamento a spirale, apparentemente svagato che però poi arriva infallibile al centro della storia. Che è un disastro, il guaio di tutti i guai. Improbabile. Impossibile. Disancorata da qualsiasi realtà conosciuta. Con personaggi che sembrano vivere in una bolla a parte, mica in Italia, mica in questa Italia di cui pure il film vorrebbe essere un ritratto fedele e referto. Ma scusate, regista e autori dove li hanno visti manager e padroni così? Dove li hanno visti dei consulenti aziendali come il personaggio di Mastandrea e gli altri dello studio per cui lavora? Per non parlare di quel cda che sembra, per ignominia e oscure manovre e mire, la riunione della Spectre nel palazzo romano presieduta dal mefistofelico Christoph Waltz. Siamo alle solite, e sono solite che durano da decenni e decenni e decenni. Quando il cinema italiano deve raccontare l’industria, il mondo delle aziende, dei padroni e dei padronci sbrocca e deraglia, dipingendo un mondo malvagio che non c’è e non è mai esistito così in natura (basta aver lavorato in una qualsiasi azienda privata per rendersene conto), ma solo nelle leggende nere, nelle grottesche caricature della produzione letteraria e propagandistica delle ideologie antisistema e anticapitalismo e antitutto. Allora: per almeno tre quarti d’ora non riusciamo a capire che mestiere faccia Enrico Giusti, il main character interpretato da Mastandrea. Non capiamo e ancora meno capiamo come lo possano pagare, e anche bene, per fare quel cazzo di niente che fa. Si incarica di sistemare aziende per conto dello studio di cui è dipendente, ma come? Quando finalmente lo spiega (“Mando via i dirigenti che stanno per mandare a fondo con la loro incapacità le aziende, ma non li faccio fuori, li convinco ad andarsene”) cascan le braccia, per non dire peggio. Ma scusate, gli autori uno così da dove l’han tirato fuori? Da che storia, che cronaca? Ecco, l’Enrico Giusti un giorno si ritrova ad affrontare la fccenda più grossa della sua carriera. Marito e moglie titolari di un’azienda modello con fabbriche dislocate in Italia e nel mondo muoiono in un incidente stradale, a ereditare la maggioranza sono i due figli, l’universitario Filippo e l’adolescente aspirante danzatrice Camilla, che di gestione nulla sanno, e di mercato ancora meno. Lo zio marpione pensa di magnarseli vivi, i due ragazzetti, di manovrarli come burattini, ma non ha fatto i conti con la loro determinazione, e con quella di Enrico che li spalleggia. Già, perché lo zio infame ha deciso di chiudere la fabbrica in Italia mandando a spasso migliaia di lavoratori, ma i due ragazzini si oppongono, non vogliono fare i cattivi padroni loro, son convinti che possa esserci un via umanitaria al capitalismo, e dunque tenere aperta la fabbrica e non licenziare nessuno. Fa niente se i conti son disastrosi, i due padroni ragazzini e assai francescani son convinti che l’economia non sia una questione di vile denaro, produttività efficienza, concorrenza e altro brutali parametri, no, l’economia è una faccenda morale, l’occasione di praticare il Bene e combattere il Male. Male che è ovviamente l’avidità di gudagno e bla bla bla, secondo un armamentario veteroideologico aggiornato ai pauperismi e ai declinismi e alle decrescite attuali. Una cazzata, ecco. Oggi in questa Italia, in questo mondo dilaniatio dalla competizione, Gianni Zanasi e il suo La felicità è un sistema complesso ci vengono a dire che il cattivo capitalismo lo si sconfigge gestendo le fabbriche con spirito francescano, anche cucinando torte di mele secondo la ricetta della nonna e andando tutti, giovani e meno giovani, a spasso in monopattino (o skateboard). Aggiungeteci una storia d’amore che non si quaglia mai tra l’Enrico e una ragazza israeliana mattocca che sembra sempre lì per concederglisi e mai lo fa, e il quadro è fatto. Girato in Trentino grazie alla locale, attivissima Film Commission. Praticamente nelle stesse location in cui agiscono i personaggi di un film uscito proprio questo weekend, Loro chi? Con Piazza Duomo a Trento presentissima nell’uno e nell’altro. Ma delocalizzare un po’ no?

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