TorinoFilmFestival. I 5 film che ho visto lunedì 23 novembre ’15 (Coma, Suffragette, Gold Coast…)

Gold Coast

Gold Coast

Coma di Sarah Fattahi (Siria/Libano). Torino 33 (concorso)
Una madre e una figlia quarantenne di nome Gharam intrappolate in un appartamento di Damasco, oggi. Ombre, evanescenze, immagini tremolanti e imperfette. Forse là fuori c’è una misteriosa presenza, se ne indovina appena la sagoma in movimento attraverso il vetro. O almeno così pensano le due donne, impaurite, sole. Sembra una casa di fantasmi, questa casa siriana qualunque. Zero uomini. Il capofamiglia-patriarca è morto e la moglie non fa che rimpiangerlo. L’ex marito di Gharam è invece pochissimo rimpianto, lei ne ha un pessimo ricordo, “non ho mai passato con lui un giorno felice” dice alla figlia Sarah (son tre le generazioni in ballo in questo film, anche se Sarah – è lei a filmare – non la si vede quasi). L’anziana madre grida che ci vorrebbe un uomo in casa, a risolvere i tanti problemi: la luce che se ne va, il gas che non c’è, il riscaldamento che non funziona, e come faremo con l’inverno? Ci vorrebbe qualcuno, anche, che le proteggesse. Una tv spara voci di una novela (la Siria è stata negli anni prima della guerra civile gran produttrice di soap popolarissime in tutto il Medio Oriente e Nord Africa). Intanto là fuori si spara, si ammazza, scoppiano bombe. La guerra di Siria vista attraverso le finestre di casa, attraverso le sue devastazioni sulle vite, le menti, i corpi e le anime.  La disgregazione di ogni certezza, la paura che ogni futuro sia perso per sempre. Tutto girato da Sarah Fattahi, un home video realizzato immagino anche con il cellulare e nei modi del cinema impuro, selvaggio, precario, improvvisato, quasi disperato, un cinema costretto a farsi in una casa-prigione. Un home video che si fa ritratto di una nazione e di una guerra, riprendendo parecchio dalla magnifica lezione di un altro film, grandissimo, sul conflitto siriano, Silvered Water – Syria Self Portrait. Tra le cose migliori del concorso, anche se male accolto qui dalla stampa. Potrebbe vincere un premio. Voto 7+
Coup de chaud (Ondata di calore) di Raphaël Jacoulot (Francia).
Francia profonda. E rurale. Fa caldo, molto caldo nel villaggio, e la siccità rischia di rovinare i raccolti, di far impazzire bestiame e umani. Josef, figlio di una famiglia che m’è parso di capire essere rom, ha le stigmate di quello che in tempi non politcamente corretti si chiamava scemo del villaggio. Ha una psiche non così funzionante e comportamenti irregolari, asociali, che nel piccolo villaggio creano prima fastidio e poi allarme. Entra non richiesto nelle case, fruga nelle cose altrui, si appropria indebitamente di oggetti e cianfrusaglie. Quando sparisce una pompa che doveva risolvere i problemi di approviggionamento idrico si pensa subito a lui. Lui che una sera cerca di violentare una signora anziana. Succederanno altri fatti e fattacci, e i sospetti si addenseranno sempre più su Josef. Film onesto, di solida fattura artigianale, senza ubbie autoralistiche, con la sola ambizione di raccontare adeguatamente una storia esemplare. Un’indagine su come in un piccola e chiusa comunità si possa costruire, e punire, un capro espiatorio (leggete René Girard se potete). Coup de chaud si mantiene in una zona di fertile ambiguità, non angelizza Josef, di sicuro presenza difficile e potenzialmente pericolosa, e non demonizza gli abitanti impauriti dalle sue ripetute infrazioni. Ma è proprio lo sguardo lucido, fenomenologio e poco ideologico a rendere così interessante il film, che mostra come la commistione di paure e pregiudizi possa portare a un esito micidiale. Jean-Pierre Darroussin è il sindaco del villaggio. Film decorosissimo, uno dei meglio del concorso a oggi. Voto tra il 6 e il 7
Les Loups di Sophie Deraspe (Canada). Trino 33 (concorso)
Il mio personale guilty pleasure di questo TFF. Un incredibile miscuglione di melodramma, engagement animalista e cinema antropolgico. Da perderci la testa. Una signorina bon ton di Montréal se ne va in pieno inverno a casa di Dio, su un’isola abitata da una comunità di pescatori e cacciatori di foche. Sì, quelli che vanno sul pack, adocchiando foche e baby foche e via con la mattanza, per procacciarsi la ricercatissima pelle e pure la carne (i locali son pure ghiottissimi del fegato di foga, adorato anche dai bambini). Sì, proprio quei massacri che fecero indignare la Brigitte Bardot di qualche decennio fa e che, se vedesse questo film, partirebbe subito per il Canada. Dunque, in questa comunità di uomini rudi e veri, dove i bambini vengon svezzati a botte di alcol (“qui gli uomini sono uomini, mica le checche di Montreal!”, e chissà cosa dirà Xavier Dolan), dove anche le donne son toste e le matriarche dominano su clan di figli e nipoti usi ad andar per mare e ghiacci, ecco proprio lì arriva la ragazza Elie dai fighettismi della città. A far che cosa in pieno inverno? Lei dice: a riposarmi, ma giustamente mica le credono. Loro sono anni che ricevono minacce di morte dagli animalisti, e sabotaggi, e dunque sospettano che Elie sia una militante o una giornalista arrivata in incognito a scoprie e denunciare le loro. Intanto il più rude dei cacciatori di foche non la sopporta, mentre di lei si innamora il bello del villaggio. Scene pazzesche, come la ragazza che dopo aver accarezzato un cucciolo di foca e averlo chiamato sweetie se lo vede massacrare sotto il naso dal bruto. Che, non pago, squarcia il corpicino e ne cava fegato e cuori fumanti. Inorridisce la signorina venuta da Montreal, inorridiscono tutti in platea. Poi ci saranno incredibili sviluppi mélo, che ci faranno capire come tra le ragazze ferventi animaliste e i brutali massacratori di foche intercorrano passioni erotiche bollentissime anzi torride, dev’essere l’attrazione degli opposti, o il richiamo del maschio selvatico sui corpi civilizzati e anoressici, chissà. Con un finale in una bettola di Montreal che aggiunge ulteriori motivi di sghignazzo a un film che non teme mai il ridicolo, anzi ci naufraga dentro con sommo gaudio, anche nostro. Sì, guilty pleasure! Voto 3
Suffragette di Sarah Gavron (UK). Sezione Festa Mobile.
Esaurito a tutte le proiezioni, file interminabili, tant’è che son riuscito a entrare solo al terzo screening. Attesissimo, questo film che ci spiega, in parte romanzando e in parte ricostruendo fedelmente i fatti, una stagione della lunga (durò decenni!) lotta delle donne britanniche per il voto femminile, e il suffragio universale senza discriminazione alcuna. Di quei film nobili e di ottime intenzioni che, raccontando di cause giuste anzi sacrosante, suonan sempre un filo ricattori verso lo spettatori. Che se ti permetti di farteli spiacere rischi la figura del socialmente insensibile (uso un garbato eufemismo). Ma insomma, questo Suffragette, pur realizzato con ottimo mestiere e ottimi attori, anzi attrici, non riesce a evitare il rischio di simili operazioni, quello dello schematismo e dell’effetto didascalia. Dove a contare, più che il modo e i mezzi, è il messaggio (politico). Comunque utile abbastanza, Suffragette, perché riporta alla luce una fase del primo Novecento abbastanza dimenticata. Le autrici (la sceneggiatrice e la regista) evitano il puro film politico inventandosi una protagonista intorno a cui far muovere e ballare personaggi, fatti, eventi storici. Siamo nella Londra del 1912, lei si chiama Maud, lavora in una lavanderia-lager da romanzo dickensiano e, come non bastassero i vapori bollenti e le ore di troppo lavoro, c’è anche un laido soprastante che allunga le mani. Tramite una collega Maud conosce un gruppo di suffragette e quasi senza rendersene conto si ritrova nel bel mezzo del movimento. Ecco, la presa di oscienza è un po’ troppo repentina e non benissimo motivata, e facciamo fatica a credere come la timida e impolitica Maud si trasformi in una tosta guerrigliera dei diritti delle donne. Il film non si decide mai tra patetico racconto privato e affrescone collettivo, e forse meglio sarebbe stato andare sul secondo, sulle fase più calda e dura della lotta delle suffragette. Carey Mulligan è ormai l’attrice perfetta per questi ruoli, non poteva mancare Helena Bonham-Carter, e Meryl Streep appare quale leader del movimento, la leggendaria Emmeline Pankhurst. E quella sua arringa dal balcone con quella voce e quell’accento è l’ennesima sua prova di istrionico mimetismo. Come marito di Carey Mulligan compare Ben Whishaw: infaticabile, lo si è visto negli ultimi mesi in almeno quattro o cinque film. Naturalmente applausi alla fine della proiezione. e però il film, sulla carta uno dei favoriti per la stagione dei premi prossima ventura, in Inghilterra e Stati Uniti non è stato un gran successo di pubblico. E a questo punto anche le chance da Oscar si ridimensionano. Voto 5
Gold Coast (Guldkysten) di Daniel Dencik (Danimarca/Ghana). Festa mobile.
Una buona, buonissima sorpresa questo film danese già presentato, mi pare, a Karlovy Vary (un festival da tenere d’occhio) e al London Film Festival, ma che pochi davano tra i più appetitibili qui al TFF. Strana la sua genesi. Doveva essere una storia d’amore ottocentesca, ma la malattia dell’attrice protagonista ha costretta il regista Daniel Dencik (svedese, con passato di documentarista) a svoltare Gold Coast verso altri lidi narrativi, trasformandolo – e meno male – in uno di quei confronti tra uomini europei e torride realtà africane (o esotiche) che finiscono col ridisegnare e travolgere il destino dell’uomo bianco. Dissoluzione dell’anima, follia, malattia sotto il sole dei tropici e dell’equatore. Restando la matrice tutt’ora infinitamemnte replicata Cuore di tenebra di Joseph Conrad. A perdersi stavolta è un giovin signore danese, di professione e vocazione botanico, il quale nel 1832 ottiene dal re l’autorizzazione a recarsi nella Guinea danese a dar vita a piantagioni di caffè. Sì, Guinea danese, e devo dire che non ho mai saputo che la Danimarca avesse avuto le sue colonie d’Africa. Dove, apprendiamo, si parlava la lingua di Copenaghen e la si imponeva ai locali. I quali dovevano obbedire a un governatore e farsi catechizzare da missionari decisi a salvare le loro anime mediante battesimo e inclusione nella chiesa di Cristo. Wulff Joseph Wulff, questo il nome del botanico, è un idealista, un fervente cristiano, un uomo buono convinto che laggiù potrà continuare i suoi studi in una natura magnificente, e insieme portare giustizia e migliori condizioni di vita. Si scontrerà subito con una realtà torbida. Il governatore, malato e debole, si circonda di uomini debosciati e corrotti dediti a orge e latrocini e vari crimini, la sola luce arriva da una giovane coppia di missionari che educano gli africani non solo all’amore di Cristo, ma al bello, alla cultura, insegnando loro a leggere, scrivere, ascoltare e fare musica. Sono le due facce strettamente interdipendenti della presenza europea in quelle terre. Wulff, sorretto dai suoi immarcescibili ideali, cerca di realizzare il bene, si scontrerà con il male e la cricca dei corrotti, e andrà alla guerra, lui e un pugno di africani armati, contro un signore che continua la tratta degli schiavi, nonostante che la Danimarca l’abbia abolita dal 1803. Solo che questo tragitto così avventuroso e insieme fortemente morale non è raccontato nei modi usuali del film coloniale, ma secondo gli stili e gli approcci del cinema antropologico e quelli del cinema visionario à la Herzog. Il regista cerca di dare forma e immagine ai fantasmi che agitano Wullfi, lo fa cadere in crisi che sembrano trance, mentre intorno a lui la natura pare inghiottiro e divorarlo, e i nativi alternano, con i loro oscuri rituali e i loro silenzi, minaccia e protezione, estraneità e partecipazione. Ci sarà uno smacco, le fortune di Wulffi si dissolveranno. Diventerà una vittima sacrificale, alla fine di un tragitto evidentemente ispirato al modello cristologico. Wulffi come eroe, santo e martire. Come sottolineato dallo stesso corpo – martoriato, dilaniato, esposto – del protagonista, il biondo Jakob Oftebro già pronto per un remake di Jesus Christ Superstar, che attraversa il film riempiendolo della propria follia, del proprio santo furore. Ecce homo. Non so se sia un grande attore, di sicuro Oftebro ha la stoffa speciale delle star (ricorda il giovane Peter O’Toole), e ne risentiremo parlare. Il regista abbandona ogni facile spettacolarizazione, concentrandosi sulle persone, e sulle relazioni di fascinazione e repulsione tra europei e africani. Un cinema disegnato intorno alle ossessioni e alle pulsazioni desideranti, fiammeggiante, carnale e insieme profondamente spirituale e impregnato di sacro. Non tutto è perfetto. Spesso Gold Coast si perde e degrada in goffaggini a approssimazioni (le scene d’amore con la fidanzata), e le scene diciamo così d’azione non sono il massimo (la presa del forte del signore degli schiavi). Ma ci sono dentro un furore e un delirio che mancavano dai tempi dell’Herzog più grande. Troppo presto per dire se sia nato un autore, intanto c’è da sperare che Gold Coast circoli il più possibile, anche in Italia. Voto 8

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