TorinoFilmFestival. I 5 fim che ho visto domenica 22 novembre (Gomes, il messicano-rivelazione…)

Sopladora de Hojas

Sopladora de Hojas

Lo scambio di Salvo Cuccia (Italia). Torino 33 (concorso).
Non il solito mafia movie. Anche se la location è Palermo, anche se si comincia con due sparati alla schiena al mercato (Ballarò? Vucciria?) da un killer, anche se è tutta una faccenda di picciotti, boss e piccoli padrini. Perché qui la criminalità made in Sicilia diventa il luogo, l’occasione, perfino il pretesto di una messinscena di forte impronta teatrale fatta di ribaltamenti, giochi di specchi, maschere, inganni, controinganni dove niente è quel che sembra e tutto può scambiarsi con tutto. Certo che c’entra Pirandello, come no, da cui il film riprende i fondamentali motivi, e anch le ossessione, delle realtà cagianti, delle identità incerte, dei giochi di simulazione, e anche il distacco e il disincanto di Sciascia c’entrano. Dopo i due ammazzati al mercato assistiamo a un signore che ha tutto l’aria di essere un commissario di polizia interrogare duramente un tizio. Vuole una verità che non gli sarà però svelata. Poi tutto cambia, come se un palcoscenico ruotando rivelasse la parte in ombra di quanto abbiamo visto fino a quel momento, e la violenza della legge e quella dei fuorilegge sembrano sovrapporsi e scambiarsi. Non dico di più. Dico però che l’idea drammaturgica, l’innesco alla base di questo piccolo film siciliano è eccellente. Peccato che la sua realizzazione, la sua messa in cinema non sia all’altezza. I dialoghi non sono taglienti e allusivi come occorrerrebbe, la macchina narrativa ha qualche buco vistoso (ridatela in mano a un David Mamet e vedrete come l’aggiusta), e la regia è quella che è. Volonterosa. Lo stesso la recitazione. Terribili le incursioni nel surreale e nel fantastico (quel cavallo!). Il regista non si nega niente, neanche il cazzeggio alla Tarantino dei suoi duri, tutto quel parlare di cene e trivia mentre si tortura e ammazza. Voto 5+
Sopladora de Hojas, di Alejandro Iglesias (Messico). Torino 33 (concorso).
La vera sorpresa, a oggi, del concorso, e forse di tutto il festival. Un piccolo film messicano – di una cinematografia ormai arrembante che produce opere su opere che non si possono più ignorare, e tra le più esplorative – fatto con un pugno di soldi, attori inventati, indipendentissmo, eppure come funziona tutto a meraviglia, e come ci si diverte, più che a dieci cinecommedie italiane. A conferma che si può fare ottimo cinema anche senza soldi, basta averci le idee, ed essere bravi (che è la cosa davvero difficile). Dunque. In un qualsiasi quartiere medioborghese di una qualche città (la capitale?) tra amici vitellonistici tra i 18 e i 20 anni si ritrovano al parchetto sotto casa a fare, semplicemente, niente. Ad ammazzare il tempo. A cazzeggiare. Chiacchiere infinite (sulle donne in primis), sfottò e prese per il culo reciproche, rimbrotti e rinfacci, in un conversare del niente divinamente scritto e recitato con meravigliosa naturalezza dai tre ragazzi-attori (così bravi che non lo sembrano). Succede che un loro amico è appena morto in un incidente di moto, e loro devono andare al funerale. E però intanto uno dei tre ha perso le chiavi, comprese quelle della macchina della fidanzata rompicoglioni, saltando giù da un ramo in un mucchio di foglie del parco. Già, ma quale mucchio? Ce ne sono decine, e ai tre non resta che cercare e cercare. L’ideale sarebbe avere un soffiatore di foglie (ecco il titolo), ma dove trovarlo? Ognuno ha qualcosa da nascondere, il suo piccolo lurido segreto. Emilio si masturba compulsivamente pensando alla vicina del piano di sotto, Ruben ha smesso di andare all’università ma non l’ha detto in famiglia, Lucas è succube di quella fidanzata opprimente. Alla fine della giornata per tutti qualcosa cambierà. Si ride come poche volte, anzi quasi mai, ai festival. Grande applauso alla fine del press screening. Arriverà un premio? Voto 7 e mezzo
High-Rise di Ben Wheatley (UK). Festa mobile. Era dalla fine degli anni ’70 che Jeremy Thomas, il produttore del Bertolucci in lingua inglese (L’ultimo imperatore e altro), cercava di realizzare in cinema quel che forse è il libro più allarmante di James G. Ballard, Il condominio. Ci è riuscito solo adesso, affidando la regia a quel che è il più eccentrico talento del cinema inglese dell’ultima decade, il meno allineato, il più anarchico, il più attratto dalle visone del male, il Ben Wheatley di Kill List, di Killer in viaggio e del follemente magnifico A Field in England, un film storico come se ne son visti pochi. Ballard+Wheatley, sulla carta un’accoppiata perfetta. Non solo sulla carta. Il film funziona, eccome, e rispetta in pieno le aspettative. tant’è che ci si chiede come mai Venezia se lo sia lasciato sfuggire. Comunque eccolo qua a Torino, dopo l’uscita inglese di fine estate. High-Rise si porta dietro tutto il sapore e anche l’odore forte degli anni Settanta in cui è stato scritto il libro di Ballard, anni alquanto maledetti di cui la storia è una rappresentazione appena distorta e in forma di distopia (si sa, le distopie raccontano sempre il presente di chi le immagina e le scrive, non il futuro, e lo stesso vale per tutta la fantascienza). Ci son dentro, miscelate e arruffate, infinite ossessioni che attraversavano in quel tenpo l’Occidente. La critica feroce all’ordine costituito, alla società classista e gerarchizzata, la pulsione collettiva a una rivoluzione estrema e anarchica, e livellatrice. La convinzione che il livello di sviluppo-progresso-civiltà raggiunto da Europe e America fosse solo apparenza, una maschera ipocrita, una costruzione ideologica a occultare sotto le buone maniera gli eterni modi ferini dell’orda selvaggia e primitiva, sempre pronta a scatenarsi alla prima occasione. Che bastasse solo un corpuscolo negli ingranaggi della macchina sociale per farla precipitare nel caos e restituirci tutti allo stato di natura. Il condominio ballardiano questo ci diceva e ci dice, ma in quegli stessi anni lo suggerivano anche film come Weekend di Godard o Un tranquillo weekend di paura di JohnBoorman. In High-Rise siamo in un ambizioso grattacielo voluto dall’architetto Royal (Jeremy Irons) come esperimento di paradiso in terra fuori Londra, parte di un complesso di cinque torri che, una volta costruite, dovranno realizzare l’utopia del bel vivere coltivata dal suo padrone e creatore. Ma il condominio che va su impudico e arrogante verso il cielo ha in sè i germi che porteranno allo sfacelo, già i segni del disordine. Con la rigida compartimentazione per classi sociali. Ai piani bassi i meno abbienti, a quelli medi i benestanti, ai piani alti i ricchi molto ricchi. E all’ultimo lui, Royal, con una terrazza-giardino in cui corrono cavalli e si coltivano fiori rari e alberi. Una segmentazione che porta a poco a poco al sospetto reciproco, all’odio di classe, alla competizione, e poi alla rivolta. Il grande disordine si annuncia con piccoli guasti non allarmanti, blackout all’impianto elettrico, ascensori bloccati, parcheggi malfunzionanti, che però rinfocolano il disagio e la rabbia. Specie nei ceti inferiori. Quanto si sta agitando e si va man mano coagulando nel ventre del sinistro grattacielo (simile a quello curvo progettato per City Life a Milano da Libeskind) lo conosciamo attraverso vita, desideri, pulsioni, movimenti di un neocondomino, il giovcane neurochirurgo Robert Laing (un perfetto Tom Hiddleston: tra i migliori attori del momento). Si scoperchia man mano il verminaio. Tresche sessuali, malattie, psicopatologie, violenze psicologiche e fisiche, privati vizi e nessuna pubblica virtù. Party che degenerano in baccanali di sesso e sangue. Una deboscia che sembra non rispamiare nessuno. Si scatena la guerra tra pari grado, e degli inferiori verso chi sta più su. Una lotta di classe violenta alla cui guisa di mette un documentarista televisivo che scala i piani uno dopo l’altro arrivando a minacciare la stessa terrazza-Eden (è un Luke Evans sempre più bravo, qui perfetto macho anni Settanta zarrissimo con baffi e zazzera alla George Best). La Torre si trasforma letteralmente nella nuova Babele e anche un po’ Sodoma e Gomorra. Il caos scardina ogni regola, in una regressisone allo stato animale. Ben Wheatley orchestra magnificamente questa de-genereazione, questa de-evoluzione, restituendoci ogni possibile sfumatura del sordido e del laido. Con invenzioni visive potenti. Se High-Rise non raggiunge lo status di caplavoro è per la sceneggiatura piuttosto confusa (a firma della moglie di Wheatney e sua abituale collaboratrice e complice, Amy Jump), che non ci fa cogliere i vari passaggi, la progressione verso l’abiezione. Ma son dettagli in un film grande e importante. Sienna Miller piuttosto sacrificata,  anche di più lo è la Stacey Martin di Nymphomaniac, commessa del supermercato della torre (luogo simbolicissimo, a sottolineare una polemica anticonsumistica pure quella molto Seventies e molto Godard-Weekend). Voto 8+
As mil e uma noites – Volume 2, O Desolado (Le mille e una notte – Volume 2 – il desolato) di Miguel Gomes. Sezione Festa mobile.
No, non si esagera dicendo che la trilogia del portoghese Miguel Gomes (sette ore in tutto) è una delle meraviglie del cinema di questa decade, un qualcosa che porta più in là la stessa idea di film e di fare cinema. Presentata in prima mondiale lo scorso maggio a Cannes, e però non al festival maximo ma alla Quinzaine des Réalisateurs, da allora è cresciuta per fama e risonanza, e per devozione indotta nel popolo cinefilo. Più per sentito dire che per pratica e visione diretta, poiché Le mille e una notte 1, 2 e 3 dopo Cannes non sono passate in nessun altro festival: fino a oggi, fino a questo Torino FF (e tra pochi giorni al FilmMaker di Milano). Sicché io, che a Cannes ero riuscito a vedermi solo il primo volume (come fai a incastrare sette ore in quel delirio vorticante di film?) qui a Torino sono corso a vedermi il secondo e il terzo. E che esperienza, madonnamia. Allora qualche ri-spiega. Non aspettatevi dal talentuoso Miguel Gomes di Tabu (uno dei film che hanno divelto e riscritto il cinema in questi anni) un’operazione analoga a quanto aveva fatto Pasolini a suo tempo sulla più famosa raccolta novellistica dell’età d’oro della Baghdad califfale. Dalle Mille e una notte il gran portoghese prende a prestito la struttura di racconto, piegandola a quanto gli preme narrare, ora in forma di fabula ora di cronaca-verità, l’anno a suo dire orribile del Portogallo tra l’agsto 2013 e il luglio 2014: quando, sotto la guida (o il diktat: fate voi) della Troika il governo varò riforme rigidissime in fatto di economia. Impoverendo il paese, sostiene Gomes, oltre ogni popolare sopportazione. Ecco, Le sue Mille e una notte intendono mettere in scena storie, frammenti, visioni del reale e visioni fantastiche di quel periodo. Denunciando, e però mai nei modi convenzionali del cinema engagé. Ora, io alla propaganda antiTroika non ho mai creduto, son dell’idea che per rilanciare l’economia d’Europa occorrano riforme toste e vere. Tant’è che il Portogallo, da Gomes descritto come un paese alla fame, oggi, e forse anche per via di quelle misure economiche, è in piena ripresa, più dell’Italia. Ma cosa importa della visione ideologica di Gomes, importa molto invece che tipo di cinema riesca a produrre. Ed è cinema magnifico. Se il volume primo mi aveva sorpreso per la sua carica inventiva, per la sua perfino irridente sperimentazione di nuovi linguaggi fimici, per le sue ibridazioni, questo secondo mi ha travolto. Probailmente, insieme a Cemetery of Splendour, The Lobster, Son of Saul, il vertice assoluto di questo 2015. Gomes adotta una struttura più lineare rispetto sia al volume primo che al volume terzo. Dopo l’introduzione, via con una serie di novelle che, pur con qualche vaga eco di quanto raccontato da Sheherazade, si situano nel Portogallo di oggi percorrendolo in compagnia di personaggi assurdi e commoventi, uomini e animali, figure del reale e figure fantastiche. In una libertà così assoluta da lasciare sbalorditi. Gomes mescola generi, registri, toni, atmosfere con una carica inventiva sconfinata e spudorata. L’episodio della donna giudice che si trova di fronte a una catena di reati, a cannocchiale, uno dentro l’altro, uno trascinato dall’altro come in una filastrocca yiddish, è un qualcosa da consegnare subito alla storia del cinema e da studiare, sezionare, rileggere, analizzare dove si insegni a raccontare e girare. E poi, l’odissea del cane Dixie e dei suoi vari padroni, una commedia umana e disumana e animale in una banlieue portoghese che diverte e commuove come poche volte nel cinema d’oggi. E ogni volta, una costruzione drammaturgica anomala, un’invenzione. Come la novella della giudice, che comincia lateralmente, con la telefonata di lei alla figlia che ha appena perso la verginità con il neomarito (e primo piano del pene insanguinato di lui). Gli elemeni della crisi e del disagio sociale – perdita del lavoro, tossicodipendenze, devianze e derive criminali – sono fili tra gli altri della trama narrativa, non necessariamente i più visibili e portanti. Gomes è un genio, e questo volume 2 lo certifica. Nei prossimi mesi l’opus magnum sarà distribuito in qualche sala italiana dal Milano Film Network. Ecco, non perdetevelo. Scelto giustamente dal Portogallo, questo secondo volume, come proprio candidato all’Oscar per il miglior film in lingua straniera. Voto 9
As mil e uma noites – Volume 3, O Encantado (Le mille e una notte – Volume 3 – l’incantato) di Miguel Gomes. Festa mobile.
Dopo i vertici del volume secondo mi aspettavo quantomeno il terzo allo stesso livello. Invece no, purtroppo. Gomes in dirittura finale confeziona l’episodio meno convincente della trilogia, pasticciando alquanto sia nell’architettura drammaturgica dell’insieme, se non assente quantomeno farraginosa e fragilissima, sia avvitandosi in un lungo prologo che intende ricreare una sorta di Baghdad califfale però ibridata alla contemporaneità, e mescolando elementi fantastici della narrativa araba (come i geni dei venti) e figure delle Mile e una notte (Sheherazade, suo padre, il ladro di Baghdad) a parabole e fabule e schizzi mitologici presi a prestito da ogni dove moderno (per es. la musica brasiliana anni Settanta). Si fatica a seguire l’andamento sussultorio e ondivago del racconto, anche se naturalmente i momenti sublimi non mancano (quel cielo solcato da aquiloni e altre cose volanti, o il colloquio tra Sheherazade e il padre sulla ruota panoramica). Poi si parte con una novella di estenuante lunghezza, un’ora abbondante, anzi un’ora e mezza, sui cacciatori e allevatori e addestratori di fringuelli canterini, una pratica che i portoghesi soldati nella Grande Guerra hanno importato dalle zone di trincea della Francia del Nord. Si entra in un mondo fascinoso e sconosciuto e parallelo, quello dei contest di fringuelli cantanti e dei loro appassionati-ossessionati. Perfettamente gomesiano nel suo essere spaccato antropologico del Portogallo laterale, minore, profondo e insieme irriducibile alla medietà e alla modernità. Ma questa storia così fascinosa occupa lo spazio dello schermo per troppo tempo, come se Gomes avesse rinunciato a ogni tentativo di darle una forma, di arginarla. Un materiale enorme e abnorme che come un blog si impossessa del film quasi a soffocarlo. Oltretutto appesantito da un eccesso di didascalie da cinema muto che comnpaiono ogni trenta secondi e spezzano la fluidità. In mezzo viene incastrato e incastonato il frammento della proesta dei poliziotti davanti al parlamento, incredibilmente raccontato in cinese da una cinese amante sedotta e poi abbandonata da uno degli agenti, tanto per dire cosa riesca a fare Gomes della cronaca e della storia del suo paese. Ed è la parte migliore. Tornano elementi e figure dai precedenti episodi, come il tossico Vasco e l’adorabile cane Dixie. Momenti assolutamente folgoranti abbondano, come no (lo spirito del vento caduto nella rete), ma l’impressione è che Gomes non abbia avuto il tempo di intervenire di più in fase di editing, e si resta con una sensazione di abbozzo, di incompiutezza. Ma anche questo è un ulteriore sapore, e un ulteriore spiazzamento di una mirabolante trilogia che resterà. Voto 7 e mezzo

 

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