Recensione: MEDITERRANEA, uno dei migliori film italiani dell’anno finito (ingiustamente) tra gli invisibili. Qualcuno lo distribuisca, subito

215112224800Mediterranea, un film di Jonas Carpignano. Con Koudous Seihon, Alassane Sy, Pio Amato, Annalisa Pagano, Paolo Sciarretta, Zakaria Kbiri. Finalista al Premio Lux assegnato dal parlamento europeo.
226206Il migliore film italiano del 2015 insieme a Bella e perduta e Non essere cattivo. Lanciato alla Semaine de la critique a Cannes, finalista al premio Lux, premiato negli Usa. Eppure non ha ancora trovato un distributore in Italia, e pochi ne hanno scritto. Mediterranea racconta di un giovane uomo che lascia il Burkina Faso e dalla Libia arriva a Lampedusa. Si ritroverà coinvolto negli scontri di Rosarno tra italiani e immigrati. Non solo un film di denuncia. Pur nella sua vocazione a documentare, Mediterranea ha una solida sceneggiatura, una narrazione e personaggi avvincenti. Cercate di recuperarlo in tutti i modi. Voto 8
302778Presentato lo scorso maggio a Cannes in prima mondiale alla Semaine de la critique, rassegna che non è esagerato definire autorevole. Finalista insieme al turco-francese Mustang e al bellissimo bulgaro The Lesson del Lux Prize assegnato a Strasburgo dal parlamento europeo (il che vuol dire sottotitolaggio garantito in tutte le lingue dell’unione, dal portoghese all’estone al finnico passando per francese, tedesco, inglese). Ancora: il suo regista Jonas Carpignano premiato come miglior autore debuttante del 2015 dal newyorkese National Board of Review. Distribuito finora in una decina di paesi, Norvegia, Spagna e Stati Uniti compresi, e già acquistato da un’altra decina. Eppure Mediterranea, il migliore e più importante film italiano (insieme a Bella e perduta e Non essere cattivo) di questo anno che va a finire, non ha ancora trovato un distributore da noi, e per vederlo bisogna averci un bel po’ di fortuna. Io, che l’avevo rincorso a Cannes senza riuscire a beccarlo (succede a un festival, e soprattutto a Cannes dove i titoli da non perdere sono un’infinità e le sovrapposizioni di programma tra le varie sezioni e rassegne micidiali) e poi perso di nuovo in settembre a Venezia dove le Giornate degli autori l’avevano presentato – soltanto uno screening! – insieme agli altri finalisti del premio Lux, son riuscito a intercettarlo finalmente l’altra settimana al Beltrade di Milano come terzo e ultimo della rassegna dei Lux Prize Movies. Il fatto è che, al di là dei premi incassati e dei circuiti festivalieri in cui è stato inserito, il film è effettivamente bellissimo, e vi par possibile che, pur raccontando una storia che molto ci appartiene e ci riguarda (trattando di un migrante approdato dal Burkina Faso nella Rosarno dei famosi riots calabro-africani), nessuno l’abbia ancora comprato e mandato in sala? E vi par possibile che, in un paese dove tra carta e digitale si recensisce ogni minuscolo e corpuscolare filmuccio, di Mediterranea  si sia scritto poco o quasi niente, e tantomeno ne abbiano scritto i signori grandi-firme di quel poco che resta della nostra critica istituzionale? Non è il caso di gridare allo scandalo e fare gli indignados straparlando ideologicamente di censura del mercato, e però di sbattersi un attimino e fare un qualcosa sì. Per quanto mi riguarda, eccomi qua a parlarne e a metterci la mia pietruzza, sperando che al più presto questo lavoro di Carpignano esca fuori dal limbo degli invisibili e non recensiti, che è perfino peggio del girone infernale degli stroncati-e-massacrati ma almeno visibili. Il collegamento via Skype subito dopo la proiezione al Beltrade con il regista a Gioia Tauro dove vive parte dell’anno (e dove sta preparando il suo prossimo film ambientato sempre in Calabria) è stato parecchio istruttivo, rivelandoci innanzitutto un autore-ragazzo di travolgente energia e ironia, e aprendoci finestre sul sistema cinema oggi, su cosa voglia dire per un esordiente trovare soldi, preparare un piano di produzione, star dentro nel budget, fare lo slalom tra inconvenienti e imprevisti. Tutte cose e informazioni che son valse più di mille chiacchiere inutili tra esangui cinéphiles – critici, critichini e critichesse che siano – e ci han dato il senso del produrre, del fare, e dei molti ostacoli da superare per arrivarci. Il progetto Mediterranea nasce da un cortosullo stessa tema – l’immigrazione dall’Africa – che aveva fatto vincere a Jonas Carpignano un premio a Venezia. Da lì si è partiti per il lungometraggio, mettendo faticosamente insieme finanziatori diversi, e pugni di dollari qua e là, tant’è che il film ufficialmente ha finito col configurarsi come una coproduzione tra Italia, Francia, Usa, Germania e Qatar, bizzarra mappa geoeconomica e geopolitica che rende abbastanza l’idea dell’impresa. Un milione e mezzo di euro di budget, una lunga e minuziosa preparazione di quattro anni, riprese in Africa, in gran parte nel deserto marocchino, e il resto in Calabria, a Rosarno e dintorni, nei luoghi dei fatti che hanno ispirato Mediterranea. Al cui centro vediamo un giovane uomo del Burkina Faso di nome Ayiva che ha lasciato il suo villaggio, e la figlia, per attraversare il Sahara, raggiungere le coste libiche (in una Libia non ancora piombata nel caos ma sotto il tallone di Gheddafi) e lì imbarcarsi clandestinamente per l’Italia sui gommoni. In quel tragitto della speranza, per dirla alla Germi, che ben conosciamo e che ha in Lampedusa il suo primo snodo. Il viaggio sahariano vuol dire infide guide locali, terrorizzati compagni di viaggio ignari di tutto e trattati come non-umani, e la costante minaccia dei predoni del deserto (che non sono romantiche figure da feuilleton avventuroso otto-nocentesco, ma loschi figuri oggi più che mai presenti sulle rotte di terra e di mare più disgraziate di questo pianeta), vuol dire restare parcheggiati in una piccola città libica con l’incubo di procacciarsi soldi e ancora per soldi per foraggiare quelli che col barcone ti porteranno là, a Lampedusa, in quel che viene immaginato come l’ingresso al paradiso dell’Unione europea. Ma nel film, che Carpignano assicura essere parecchio ispirato a quanto vissuto dallo stesso non-attore protagonista Koudous Seihon (“il film è nato davvero quando ho conosciuto in Calabria Koudous, è nato dai suoi racconti, senza di lui non sarebbe stato possibile” ha detto, e cito a memoria, non alla lettera), l’odissea africana è solo il prologo, la preparazione del corpo e del cuore narrativo di Mediterranea. Che conta soprattutto per come ci mostra la vita di Ayiva e del suo amico Abbas in Italia, a Rosarno, in una baraccopoli, e il lavoro nei frutteti a riempire casse e casse di arance pagati una miseria (e il padrone che si incazza come una belva perché Ayiva lascia i piccioli troppo lunghi: “ma non hai ancora capito che così non me li compra nessuno?”). La cinepresa di Carpignano, che ha girato nel vecchio e glorioso 16 millimetri di tanti cineasti immediatisti e ansiosi di catturare il reale dell’era predigitale, è nevrotica e mobilissima e prensile, come si usa adesso nel cinema giovane-internazionale, specie in quello che mescola il documentario alla fictionalizzazione, come in questo caso in cui tutto è reinventato pur aderendo strettamente a quanto accaduto. La vera sorpresa di Mediterranea è che è parecchio di più del solito, per quanto nobile, film sulle sofferenze dei migranti d’Africa. Chi temeva (come me) una storia ricattatoria e angustamente politically correct è stato smentito. Certo, niente viene omesso delle disgraziate vite di Ayiva e compagni, ma grazie a Dio la denuncia viene sussunta, sbriciolata, in una narrazione che appassiona. Il lavoro duro e malpagato nei campi, l’incessante guerra di frizione con i locali, soprattutto i giovani maschi, il rigetto di molte italiani ma anche la disponibilità e la determinazione ad accogliere di un pugno di volontari. E le tranche de vie nel mondo a parte degli africani, le solidarietà e le rabbie e anche le divisioni, le fratture. I contatti via Skype con casa. Fino allo scoppio degli ormai storici scontri di Rosarno del gennaio 2010, cominciati con alcuni colpi di fucili ad aria compressa su tre immigrati, e divampati con l’incazzatura degli africani, rivolta, distruzione, roghi di macchine e case. Ecco, tutto questo c’è in Mediterranea. Solo che Carpignano, che proprio dai fatti di Rosarno ha avuto l’idea per girare prima il suo corto e poi il film, mostra di essere un cineasta vero, e un vero narratore, non limitandosi a riprodurre la realtà e a denunciarla nell’ennesima celebrazione del cinéma-vérité o delle sue illusioni. Il bello di Mediterranea, e il suo dato inaspettato, è di essere un racconto benissimo costruito e scritto. Ci sono caratteri, principali e collaterali, messi a punto magnificamente, e si pensi solo a Pio, il ragazzino (mi pare rom) già piccolo signore dei traffici leciti e meno leciti del paese. O a mamma Africa che apparecchia piatti di pasta per quei ragazzi venuti dall’altra parte del mare. O la famiglia del buon padrone, che poi si rivelerà padrone e basta, che accoglie Ayiva in casa (la cena e i dialoghi con l’anziana madre sono unpiccolo trattato di antropologia dell’Italia oggi). Carpignano passa dal quadro d’ambiente e dalla ricostruzione-documentazione ai toni del dramma e del mélo e, sorprendentemente, anche della commedia, mostrando una capacità di storytelling e di mescolare registri differenti inusuale per un regista italiano della sua età (e non solo della sua età). Lo si guarda, questo film, non solo e non tanto per la sua sacrosanta denuncia, ma soprattutto perché è cinema. Con oltretutto un notevole occhio registico, uno sguardo in grado di cogliere e di restituirci i frammenti del vero e le sue sfumature. Film assai costruito nella sua struttura profonda e portante e però, anche, intriso di realtà nel suo porsi come oggettivo documento allo spettatore. Con momenti di ottimo cinema. L’assalto dei predoni, la traversata e l’approdo a Lampedusa, la rivolta con quei fuochi nel buio. Grandi applausi a fine proiezione al Beltrade, e tutti a chiedersi come mai un film così sia rimasto tra gli invisibili. Quanto a Carpignano: è nato un autore. Un ragazzo che già nella sua genealogia ha dentro parecchia della nostra contemporaneità liquida e senza (apparenti) frontiere. Il suo essere insieme italiano e non italiano, nato da padre romano e da madre delle Barbados, e l’essere vissuto tra Roma e New York, e adesso Gioia Tauro, dunque felicemente diviso tra realtà locali e globali. Immerso da sempre nel cinema per via del nonno italiano che il cinema lo conosceva bene e lo praticavava come autore di caroselli. Con studi americani e la partecipazione a uno workshop al Sundance di quelli che ti aprono porte e mercati e creano contatti. Un trentenne che insieme al suo amico Koudous, il protagonista di Mediterranea, condivide un appartamento in Calabria, ma poi è pronto a partire per Strasburgo a presentare al parlamento europeo il film, o per New York per il lancio americano (Mediterranea è uscito negli Usa in qualche sala se ricordo bene la stessa settimana di Youth di Paolo Sorrentino, ma qui in Italia non ne ha scritto nessuno). Di Jonas Carpignano risentiremo parlare.

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