Il figlio di Saul (Saul Fia) di László Nemes. Con Geza Röhrig, Levente Molnár, Todd Charmont.
In un campo di sterminio l’ebreo ungherese Saul è addetto alle camere a gas e ai forni crematori. Quando tra i corpi vede quello di suo figlio ha solo un pensiero in testa: dargli degna sepoltura, trovare un rabbino che reciti per lui il Kaddish. Antigone al centro dello sterminio. Macchina da presa sul protagonista, a seguirlo in tutte le bolge dell’inferno, e con lui anche noi veniamo trascinati dentro. Radicalmente innovativo nel panorama dei film sulla Shoah. Grand Prix a Cannes 2015, Golden Globe e nomination Oscar coome migliore film straniero. Voto 8 e mezzo

il regista Laszlo Nemes
Recensione #1: scritta nel maggio 2015 a Cannes dopo la proiezione stampa del film (in concorso).
Forse il film di questo Cannes. Tutti, prima della proiezione, in fremente attesa del capolavoro annunciato. Perché per Saul Fia lo stesso delegato generale Thierry Frémaux aveva speso parole inusuali di elogio nella conf. stampa di presentazione del programma. Opera prima – l’unica del concorso – di un cineasta ungherese allievo di Bela Tarr, che è una credenziale di peso, altroché. Un film sulla Shoah, una storia insostenibile. Che non può non porci di fronte all’eterna questione: ma è possibile rappresentare quell’orrore? non è che ogni rappresentazione è in una qualche misura un tradimento? ed è possibile mantenere per lo spettatore di fronte a un film sulla Shoah un distacco critico? Bisognerà riparlare, di Il figlio di Saul, che sicuramente si prenderà più di un premio, e magari anche la Palma. Da dove partire per darne un’idea? Ecco, siamo in un campo di sterminio. L’ebreo ungherese Saul è un Sonderkommando, uno di quegli internati scelti per spogliare coloro che vengono condotti alla camera a gas, per ripulire le camere dopo ogni ‘operazione’, per bruciare i cadaveri nei forni, per spargere le ceneri nel fiume. Gente che dopo pochi mesi viene a sua volta uccisa perché non possa raccontare quel che ha visto e ha fatto. (Attenzione: esiste anche un libro dal titolo Sonderkommando Auschwitz scritto da Shlomo Venezia, un ebreo romano che ad Auschwitz è sopravvissuto). Un giorno tra i corpi tirati fuori dalla camera a gas c’è anche quello di un ragazzo, è il figlio di Saul. Che da quel momento ha solo un obiettivo in testa: dargli sepoltura degna, trovare un rabbino che reciti per lui il Kaddish. Antigone nei lager. Intanto nel campo è, letteralmente, l’inferno. Nemes ha un’idea forte e precisa di cinema, e la applica al suo racconto con coerenza assoluta. Macchina da presa sul volto del suo protagonista, e pronta a seguirlo nel suo affannarsi in quella bolgia demoniaca in lunghi piani-sequenza, a simulare il tempo reale. Intorno a Saul tutto, uomini e cose, è sfuocato, indistinto, e questo consente a Nemes di sfuggire almeno in parte al dilemma della rappresentabilità o non-rappresentabilità dell’orrore. Capolavoro? Non saprei. Certo, la scelta stilistica forte di seguire con la macchina da presa la faccia e il corpo di Saul nella bolgia ci fa precipitare noi stessi nell’orrore, ce ne rende partecipi, come mai prima in un film sulla Shoah. Straordinariamente girato e di inaudita potenza, soffre di qualche inverosimiglianza. Com’è possibile nascondere abbastanza a lungo un cadavere in un luogo ossessivamente controllato come un campo di sterminio? Ma bisognerà pensarci ancora su, a Il figlio di Saul.
Recensione#2, scritta il gennaio 2016 dopo aver visto per la seconda volta il film a Milano poco prima dell’uscita in sala.
È raro che vada a rivedere un film, se non altro perché ce n’è troppi di nuovi da vedere e recensire, tra quanti escono e quelli mai usciti che sbucano di colpo in rassegne o cineclub o altro. Il figlio di Saul è uno dei quei rari casi. Così importante e così differente, e anche sconvolgente (se c’è un caso in cui si può spendere una parola così turgida da essere quasi inusabile e pornografica, è questo) da imporre un’altra, necessaria visione. Di quei film-svolta, come The Act of Killing, che stabiliscono un cambio di paradigma, in questo caso nella rappresentazione in cinema della Shoah. E da rivedere anche perché, da quando lo scorso maggio fu presentato in prima mondiale a Cannes e nessuno ne sapeva niente a parte la calda e inusuale, anche irrituale, raccomandazione che ne aveva fatto Thierry Frémaux in sede di conferenza stampa di presentazione del programma, è diventato un film-totem, rispettato come se fosse già un classico, e anche uno dei film più premiati dell’anno, dagli Efa al Golden Globe come migliore film straniero (e adesso vediamo con gli Oscar, dopo che ha avuto la nomination sempre nella categoria best foreign language film). La storia dell’ebreo ungherese Saul, Sonderkommando in un lager non precisato (no, Auschwitz non viene mai nominato) che tra i corpi da sgombrare dalla camera a gas riconosce il proprio figlio – un figlio avuto fuori dal matrimonio – e che rischia tutto per potergli dare degna sepoltura, riattiva nello spettatore non solo l’eterna e irrisolata domanda: come si potuti arrivare a un tale orrore?, ma anche i dubbi che da decenni e decenni accompagnano tutte le rappresentazioni, in cinema e non solo, della distruzione programmata degli ebrei d’Europa. Manifestazione così radicale del Male, e in modi così estremi per via del ruolo giocato dalla (ir)razionalità della tecnologia e dalla sua applicazione, da farci risuonare in testa, inesorabilmente, il monito e l’interdizione di Thomas W. Adorno formulati nel suo Dialettica negativa: “Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile. Il rapporto delle cose non può stabilirsi che in un terreno vago, in una specie di no man’s land filosofica”. Parole che hanno sempre pesato come un macigno su chi si accingeva al racconto e alla rappresenntazione del massacro degli ebrei (e di altri che finironi dei forni, rom, omosessuali, disabili, dissidenti politici). Sul cinema pesa un macigno aggiuntivo, la ormai mitologica e indignata stroncatura di Jacques Rivette, critico dei Cahiera du Cinéma e regista della Nouvelle Vague, di Kapò di Gillo Pontecorvo. Rivette che – correva l’anno 1961 – si scagliò contro una carrellata verso il cadavere di una detenuta suicidatasi contro la recinzione elettrificata del lager. Rivette bollò di immoralità quel voler ritrarre e enfatizzare, oggi si direbbe glamourizzare, la morte violando un norma etica irrinunciabile, oltretutto con una ripresa ‘sconcia’ dal basso all’alto. Sollevando una questione tuttora cruciale: “chi potrà, la prossima volta, stupirsi o indignarsi di ciò che avrà smesso in effetti di essere scioccante?”. Laszlo Nemes, il poco più che trentenne regista di Il figlio di Saul, benché così giovane e al suo primo film deve aver tenuto ben presente il doppio monito di Adorno e Rivette, e difatti realizza un film altamente consapevole dei rischi, come nessuno prima di lui (fare un confronto con La lista di Schindler di Spieberg). Per allontanare ogni possibile glamourizzazione del male e della morte sceglie uno stile sporco, lercio, con una macchina da presa mobile e prensile all’altezza del cuore, del volto e anche delle viscere del suo personaggio principale. Saul, che diventa la sua e nostra guida all’inferno, colui che sembra trascinarsi dietro la macchina da presa trascinandosi insieme tutti noi spettatori. Noi vediamo il campo, gli spogliatoi delle camere a gas, lo sgombero dei cadaveri da parte dei Sonderkommando, la loro distruzione nei forni crematori, le montagne di cenere, vediamo tutta la catena di montaggio dello sterminio pianificata secondo la più sofisticata ragione tecnica attraverso Saul, i suoi occhi, la sua mente. Anche se non ci sono inquadrature in soggettiva, tutto è visto e filtrato dal suo punto di osservazione. Con il risultato, mai raggiunto prima, che allo spettatore sembra di partecipare lui stesso all’orrore, di esserci dentro, di contaminarsi lui stesso con il sangue, lo sporco, anche con l’odore dei cadaveri. Il film gioca il suo destino e il suo esito tutto sul rigore assoluto e la coerenza della scelta di Nemes. Il quale non solo non abbandona mai (o rarissimamente) Saul, ma ci mostra solo quanto rientra nel suo raggio visivo, mentre ciò che sta più in là e intorno è sfuocato, sgranato, annebbiato. Ci è concesso di vedere solo frammenti, pezzi, della catena di montaggio della morte, mai l’insieme, in una duplicazione nella nostra psiche di quella che era la visione limitata, frantumata, blindata e essa stessa sequestrata, dei prigionieri. Mai la macchina di distruzione messa in atto dai nazisti nei campi è stata rappresentata in modo così fedele, efficace, analitico. Vediamo tutto, i deportati appena arrivati con i convogli e subito guidati verso le docce, poi spogliati e ammassati nudi dentro le camere a gas. Vediamo la porta d’acciaio che viene chiusa. Sentiamo le urla da dentro. Solo che Nemes, memore di quanto scrisse Rivette (“Ci sono cose che non devono essere affrontate che nel timore e nel brivido e la morte è una di queste”), nelle camere a gas non entra e non ci fa entrare. Ci mostra il prima e il dopo, mai la morte al lavoro, mai. Un rigore e un senso del limite che fanno di Il figlio di Saul non solo una narrazione potente, ma anche un manifesto teorico e un punto di svolta e non ritorno. E un’opera profondamente morale. Ci sarà, nel cinema dell’Olocausto, un prima e dopo Il figlio di Saul, come c’è stato un prima e dopo Shoah, il monumentale film-documento di Claude Lanzmann. Il quale ha pienamente approvato il film di Laszlo Nemes, ed è un avallo che pesa. A convincermi meno in questa seconda visione è stato, come già la prima a Cannes, la traccia narrativa che Nemes inserisce dentro l’inferno. L’ostinazione di Saul – che diventa ossessione in grado mettere in pericolo non solo lui stesso ma anche i suoi compagni che stanno preparando una fuga – di nascondere il corpo del figlio (ma sarà davvero suo figlio?) e di cercare un rabbino che reciti il Kaddish è sì commovente, e conferisce al film un che di tragedia classica ed eterna, ma è anche poco realistica. Come si può pensare che un cadavere possa restare nascosto in un lager ipersorvegliato? e che si possa scappare trascinandoselo dietro? Ma sono dettagli in un film troppo importante perché possa essere ridotto a simili incongruenze. Già assistente di Bela Tarr sul set di L’uomo di Londra, Nemes sembra al primo sguardo non aver preso niente dal suo maestro. Il quale tende alla contemplazione e alla messinscena ieratica con tempi lunghi e movimenti lentissimi di macchina o tableaux vivants ripresi a camera fissa, mentre qui la mdp corre veloce e quasi alterata e febbricitante addosso al protagonista. E però, a guardarci bene, Nemes un qualcosa da Bela Tarr lo ha preso, quel gusto del long take, del piano sequenza che lega i personaggi al loro contesto, che li accompagna e li avvolge e li imprigiona. Film enorme, comunque lo si guardi. Basti confrontarlo con altri usciti per il Giorno della memoria, come Il labirinto del silenzio e The Eichmann Show, film degnissimi ma che al cospetto di Il figlio di Saul semplicemente soccombono. Non so quanta gente in Italia lo andrà e vedere, temo che il dilagante narcisismo che tiene ormai lontano ogni spettatore medio da film perturbanti (a parte gli horror, ma quello è un altro discorso) e da qualsiasi cosa che possa ‘farlo stare male’, influirà sugli incassi. Come potrebbe pesare la cambiata sensibilità di massa verso la Shoah e più in generale la questione ebraica, sensibilità che sempre più vira verso l’indifferenza se non l’aperta ostilità. Negli Sati Uniti, dove pure è approdato negli arthouse trionfalmente sull’onda di premi e recensione entusiastiche, Il figlio di Saul ha ottenuto finora modesti incassi e molto al di sotto delle aspettative. Certo, Golden Globe e Oscar potrebbero aiutare. Ma resta la sensazione che il pubblico, americano ed europeo, fatichi ad accettarlo e tenda a disertare. Peccato, Questo è film troppo importante perché lo si trascuri.
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