Recensione: UNA VOLTA NELLA VITA. Una classe francese e la Shoah in un film troppo edificante

051983UVNV_MOR3757Una volta nella vita (Les Héritiers), un film di Marie-Castille Mention-Schaar. Con Ariane Ascaride, Ahmed Dramé, Noémie Merlant, Geneviève Mnich.
437008La più difficile e riottosa classe del liceo di Créteil – banlieue francese – si redime dalla sua teppistaggine lavorando a un progetto sulla Shoah dei bambini e degli adolescenti: a guidarli è una professoressa-coraggio, una che non si arrende. Film tratto da una storia vera, ma così edificante, esemplare e grondante melassa che si fa fatica a crederci. Voto 4 e mezzo
UVNV_MOR2015Uno dei film (insieme all’ineludibile Il figlio di Saul, a The Eichmann Show e Il labirinto del silenzio) usciti in occasione del Giorno della memoria, e dei quattro è il meno interessante, il più deludente. No che non basta trattare un tema capitale e sempre incandescente come la Shoah, la sua memoria, la sua ricaduta su coscienze e incoscienze per fare un buon film, e questo Una volta nella vita ne è la prova (ma poi, perché un titolo italiano tanto assurdo visto che l’originale fa Les Héritiers, Gli eredi?). Buoni sentimenti e virtuosi proponimenti grondano da ogni fotogramma, creando una melassa appiccicosa che tutto avvolge e finisce con l’annullare per eccesso zuccherino ogni pur lodevole intento di ricordare ed esplorare il rimosso intorno alla questione dello sterminio ebraico, rischiando anzi di ottenere l’effetto contrario e di allontanare anche il meglio disposto degli spettatori. Trattando il film di una classe liceale francese in una banlieue complicata che si redime e viene redenta dalla sua teppistaggine e dal suo fancazzismo attraverso un lavoro collettico sulla Shoah, immagino che a vederlo siano state condotte qui da noi vocianti e riluttanti scolaresche ansiose solo di saltare qualche ore di lezione e del tutto ignare e disinteressate, che chissà cos’avranno capito, cos’avranno seguito, tra uno schiamazzo e uno sbadiglio, di quel che passava sullo schermo. Una volta nella vita è tratto come usa esibire quale certificazione di garanzia da una storia vera, quella del liceo Léon Blum (il presidente del Front National e, vale la pena ricordarlo, ebreo) di Créteil, la solita polveriera di tante cinture periferiche francesi, molti differenti background e molte storie mescolate in un incessante confronto-scontro che spesso si incancrenisce in guerra silenziosa di frizione, e classi scolastiche che riflettono quella società che vien spacciata per multiculturale ma che è attraversata da profonde linee di faglia e fratture tra un’etnia e l’altra, un’appartenenza e l’altra. Avete in mente La classe, il bellissimo e profetico (come peraltro L’odio di Mathieu Kassovitz) film Palma d’oro di Laurent Cantet? Ecco, quella di Una volta nella vita è così, però ulteriormente incattivita, ulteriormente sbandata, con prevaricazioni, bullismi, fancazzismi, culto machista e strafottente dell’ignoranza e del non-studio, africani contro europei, musulmani che fanno gruppo a sé (con tanto di ronde islamico-integraliste che nel liceo minacciano le ragazze con qualche centimetro di pelle di troppo esposto e impongono loro il velo, e preside e professori che con questa storia del velo, voluto dagli islamisti radicali ma proibito nelle scuole dalla laica Francia, si devono confrontare tutti i giorni, con cedimenti e codardie per quieto vivere assai poco commendevoli). Tra bulli e pupe, e bulle e pupi, arriva la brava professoressa Anne Guegen (la sempre molto empatica Ariane Ascarides, la musa di Guédiguian), una santa, una che si getta nella folle impresa di fare di quella classe di mezzi delinquenti, la peggiore di tutto l’istituto, un qualcosa di decente, di instillare in quei ragazzi perduti il senso della propria dignità, la voglia di non buttarsi via, l’orgoglio di realizzare un progetto. Quando il ministero dell’istruzione bandisce un concorso scolastico sul genocidio ebraico, la brava prof riesce a convincere la riottosa marmaglia a condurre una ricerca sui bambini e gli adolescenti deportati. Naturalmente funzionerà, e quei teppisti – studiando, leggendo, scrivendo, disegnando, informandosi, interpellando sopravvissuti e testimoni – daranno vita a un lavoro sorprendente e importante. Una trasfigurazione. Basta così, niente spoiler. Il film è talmente ingorgato di intenti edificanti (e davvero c’è un che di deamicisiano nella indomita professoressa, nella redenzione dei ragazzacci) da farci appena intravedere certe  lacerazioni che sappiamo bene solcano le banlieue. Come la condizione sempre più esposta e a rischio degli ebrei, bersaglio di un antisemtismo arrembante. Il film sfiora lo spinoso argomento, ma preferisce smussare e deviare la narrazione verso un’improbabile arcadia senza conflitti. Si fatica a credere come una classe con una presenza così massiccia di ragazzi e ragazze di religione islamica abbia potuto interessarsi tanto intensamente alla Shoah e parteciparvi con cuore e ragione. Forse il tragitto è stato più accidentato di quanto Un giorno nella vita ci presenti, mentre qui i toni sono irrealmente fiabeschi, o di un racconto fin troppo esemplare e pedagogico. Uno degli interpreti è un ragazzo di nome Ahmed Dramé. Che non solo ha contribuito attivamente al progetto della professoressa del liceo di Créteil, ma ha anche scritto la sceneggiatura del film e un libro dove racconta la sua storia (Una volta nella vita, edito in Italia da Vallardi), e di come quel lavoro d’insieme sulla Shoah gli abbia cambiato la vita. Però sarebbe bello sapere anche come la sua famiglia, i suoi amici, la sua comunità musulmana di appartenenza abbiano reagito di fronte al suo impegno. Quanto l’abbiamo sostenuto e quanto l’abbiano ostacolato. Che è anche il film che mi sarebbe piaciuto vedere.

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