Le fils de Joseph, di Eugène Green. Con Victor Ezenfis, Mathieu Amalric, Fabrizio Rongione, Natacha Régnier, Maria de Medeiros. Sezione Forum.
Quello dell’americano a Parigi Eugène Green è un cinema che non assomiglia a nessun altro. Alto e aulico, che prende a proprio modello il teatro barocco, il recitar barocco, la musica di allora. Anche per raccontare una storia contemporanea come questa, dove un ragazzo di nome Vincent trova il padre che non ha mai conosciuto e vuole vendicarsi di lui. Ma ci saranno sviluppi inattesi, e un padre lo troverà, ma non sarà quello biologico. Con forti riferimenti alla Bibbia e alla pittura dell’Occidente. Prendere o lasciare. Ma se ami Green, ne diventi pazzo. Capolavoro! Voto 9
Che giornata, quel sabato 13 febbraio: me ne rendo conto adesso scrivendone. Tre film eccellenti su cinque. L’avenir, A Quiet Passion e questo Le fils de Joseph, il meglio in assoluto tra tutto quanto ho potuto vedere finora a questa Berlinale. Di Eugène Green, autore a parte e fuori da ogni possibile schema e sistema di cinema, americano trapiantato in Francia. Avevo adorato a Locarno 2014 il suo La Sapienza. Questo Le fils de Joseph va perfino oltre. Che dire? Capolavoro! Capolavoro! Capolavoro! Impossibile rendere l’idea di cosa sia il cinema, e questo film, di Green, perché come lui nessuno, quel che fa non è apparentabile ad alcun modello grande-schermo. Green, che qui racconta di un diciassettenne di nome Vincent (interpretato da un attore con una faccia che un tempo si sarebbe detta proletaria, e con un che dell’innocenza del primo Ninetto Davoli) che scopre finalmente dopo tanto penare chi è suo padre, visto che la madre non ha mai voluto rivelarglielo. Trattasi di un editore stronzo, al centro di una cerchia di odiosi bobos. Vincent lo avvicina, si nasconde nel suo studio, medita di vendicarsi di lui. Ma ci saranno sviluppi inattesi, Vincent troverà un altro uomo che gli farà di padre e quei suoi nodi dentro si scioglieranno. La cosa straordinaria di Green non sta solo nel rigore delle inquadrature (fisse e quasi sempre frontali e simmetriche), ma nel fatto che lui, innamorato del barocco (architettura, teatro, musica), muove i propri personaggi e li disloca sullo scacchiere del set come se stessero recitando Racine, facendo declamare loro parole e dialoghi che suonano come meravigliosi e inattuali versi classici, anche quando parlano di cose assolutamente triviali e contemporanee. Con un effetto di straniamento ipnotico. Tutto è come sospeso nel tempo, o congelato in un tempo proprio, e però Green miracolosamente ci rende credibile quanto vediamo, ci fa appassionare ai suoi personaggi e alle loro vite. Con continui riferimenti figurativi all’arte dell’Occidente. Nella camera di Vincent non campeggiano foto di calciatori o rockstar, ma la riproduzione in manifesto di Il sacrificio di Isacco di Caravaggio: che verrà rifatto e ricalcato in una delle scene di massima tensione, quella in cui Vincent sta per tagliare la gola al padre ritrovato (in un’inversione dei ruoli padre-figlio rispetto all’originale). Con altri riferimenti a Bibbia e Vangeli, e perfino una fuga sull’asino come Giuseppe e Maria scampati alla furia di Erode. Cinema che o lo ami o lo odi. Ma se lo ami, ne diventi pazzo. Mi chiedo come mai Green non sia ancora consacrato, come mai qui a Berlino non l’abbiano messo in concorso ma solo a Forum. E però stavolta almeno ha potuto contare su un buon budget, e attori di richiamo come Mathieu Amalric, Fabrizio Rangione (fantastico) e Natacha Régnier. Quando Vincent si rivolge a Joseph dicendogli: “Tu sei un uomo buono, insegnami come si fa a diventarlo” o ti metti a ridere o ti commuovi. A me è capitata la seconda.
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