Festival di Berlino, Orso d’oro all’Italia. Vince FUOCOAMMARE di Gianfranco Rossi come previsto. Tutti i premi

Gianfranco Rosi alla Berlinale. A lui l'Orso d'oro pe Fuocoammare

Gianfranco Rosi alla Berlinale. A lui l’Orso d’oro pe Fuocoammare

Hanno vinto i rifugiati. Di loro ha parlato nel suo speech di ringraziamento il primo premiato della serata, un ragazzo di Taiwan vincitore nella sezione corti. Di loro ha parlato subito dopo un giovane signore di origine araba ma residente in Europa, pure lui premiato per un corto, ricordando di essere stato lui stesso un migrante. Hanno vinto i rifugiati, perché sono stati i protagonisti per quanto invisibili di questa Berlinale. Molti film li hanno raccontati, ed è costruito intorno a loro e alle loro odissee per mare e per terra quello che si è portato via l’Orso d’oro, il documentario Fuocoammare di Gianfranco Rosi. Che, come già ampiamente detto su questo blog, ci mostra la vita di Lampedusa, di chi ci abita e soprattutto di chi ci arriva sui barconi. Trionfo annunciatissimo, non è proprio il caso di parlare di sorpresa. Ci son rimasti male i jeunes critiques italiani che l’hanno detestato per come spettacolarizza il dolore, la miseria, la morte, ma così doveva andare, così è inesorabilmente andata (quale giuria, quale festival possono resistere a un tema tanto esplosivo? che poi bisogna riconoscere a Gianfranco Rosi, lo si ami o no, che il suo mestiere lo sa fare egregiamente, e Fuocoammare girerà il mondo, vedrete). Almeno s’è scongiurato il massimo premio all’epico (così l’ha definito la giuria) e mastodontico A Lullalby to the Sorrowful Mystery (Ninnananna per il mistero doloroso, che già il titolo), otto ore e cinque minuti dell’ormai insostenibile maestro filippino Lav Diaz. Come pronosticavo, gli han dato il premio Alfred Bauer ‘per il film che apre nuove prospettive’, e così la mina vagante è stata disinnescata dalla giuria saggiamente guidata da Meryl Streep. Riconoscimento minore e però prestigioso. Un capolavoro di diplomazia.
Il palmarès alterna cose ottime e qualche cantonata, com’è tradizione di ogni festival. Tutto sommato, non è andata disastrosamente. L’Orso d’argento – premio della giuria, il secondo per importanza del palmarès, è stato assegnato al notevole, anche se snobbatissimo dalla stampa, Mort à Sarajevo di Danis Tanovic, film dalla costruzione perfetta e di ottima tenuta narrativa, un ritratto allarmante e per niente di maniera delle tensioni etniche e sociali che ancora agitano (ancora e sempre?) i Balcani. Un riconoscimento che consolida lo status del suo autore. Alla Mia Hansen-Løve di L’avenir, il mio film preferito, il mio personale Orso d’oro, tocca soltanto l’Orso d’argento per la migliore regia, che è qualcosa di più di un premio di consolazione: del resto cosa mai poteva fare contro quella corazzata emozionale di Fuocoammare? Due premi alla rivelazione del concorso, il tunisino Inhebbek Hedi di Mohamed Ben Attia, una piccola storia universale che piacerà a tutte le latitudini e longitudini, benissimo scritta, benissimo girata e recitata, che si porta via il premio, ed è sacrosanto, come migliore opera prima e quello per la migliore interpretazione maschile (a Majd Mastoura, e però si poteva anche darlo a qualcun altro). Migliore attrice invece, e non se l’aspettava nessuno, la danese Trine Dyrholm, protagonista di un film assai deludente, Kollektivet di Thomas Vinterberg. Per carità, brava, niente da dire, ma è uno scandalo che la giuria si sia dimenticata di Isabelle Huppert e Sandrine Kiberlain (e pensate che spettacolo sarebbe stato vedere Meryl Streep premiare la Huppert, due gigantesse, invece niente). Il premio perfetto, ineccepibile, del palmarès è quello per il miglior contributo artistico, nello specifico per la migliore fotografia, dato al taiwanese Mark Lee Pinh-Bing (imbarazzatissimo nel suo rude e men che basico inglese) per Crosscurrent di Yang Chao, film sballato ma pieno di cose meravigliose, e la fotografia è semplicemente straordinaria, una delle migliori che si siano viste negli ultimi anni al cinema. Roba al livello di un Lubezki. Chiamate subito Mark Lee Pinh-Bing (che, scopro, ha anche firmato la fotografia del meraviglioso The Assassin di Hou Hsiao-hsien) a Hollywood, l’inglese lo imparerà. La Polonia chissà perché alla Berlinale se la cava sempre. Di solito danno un premio alla mora Malgorzata Szumowska, che però stavolta stava in giuria, e standoci immagino abbia messo una buona parola perché l’Orso d’argento per la sceneggiatura andasse immeritatamente al suo giovane conterraneo Tomasz Wasilewski per l’abbastanza sciagurato United States of Love, pretenziosissimo e assai arty. Lui a vederlo sembra un ragazzetto con faccina alla Xavier Dolan, pettinato come Dolan, con gli occhiali alla Dolan e in completo nero alla Dolan, molto sicuro di sé, molto assertivo, non proprio simpatico. Alla conf. stampa è strapiaciuto, come Dolan, alla ragazzine (ce ne sono, ce ne sono, e se le chiamo sciampiste da festival qualcuno si offenderà?). Non so se sia nato un autore, di sicuro è nato un furbetto che sa come destreggiarsi, e piacere, ai festival. Tutto sommato, è l’unico premio proprio stonato, in un palmarès che è più discutibile per le esclusioni che per le inclusioni. Il grande dimenticato è l’André Téchiné del bellissimo Quand on a 17 ans (non gli han dato neanche il Teddy Award, il premio come miglior film gay, ma si può?). Zero premi, e francamente non riesco a spiegarmelo. Non sto a dirvi molto dei tre premi ai corti, se non che il maggiore dei tre è andata a un ragazzetto portoghese che avrà sì e no 15 anni. Presumo che la signora che piangeva come una fontana in platea fosse la madre. Gianfranco Rosi ha chiamato sul palco tutti ma proprio tutti, compreso il medico di Lampedusa che vediamo nel film (è uno dei momenti migliori, va detto) e un massiccio signore ringraziato come colui che lo ha introdotto all’isola. Spirava un’aria molto, troppo italiana. Italiana nel senso peggiore, un’aria di clan, di famiglia, e devo dire che la cosa mi ha dato parecchio fastidio. Rosi ha anche tromboneggiato abbastanza nel suo speech, vero che ormai è un autore consacrato dopo il Leone d’oro (immeritato) per Sacro GRA e questo Orso (parzialmente meritato), però più sobrietà non avrebbe guastato. A questo punto, con un film così intimidente rispetto a pubblico e giuria, niente gli è più precluso, e la butto lì adesso che manca un anno: secondo me Fuocoammare ce lo ritroviamo in qualche nomination Oscar 2017.

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