Festival di Berlino 2016. Il film iraniano A DRAGON ARRIVES! (recensione). Un intricato puzzle di molti generi

Ejhdeha Vared Mishavad! (A Dragon Arrives!), un film di Mani Haghighi. Con Amir Jadidi, Homayoun Ghanizadeh, Egsan Goudarzi, Kiana Tajammol, Nader Fallah. Competizione.
201614525_2Ecco, non il solito film iraniano da festival. Il regista Mani Haghighi mescola sfacciatamente ghost-story, detective-story, fantapolitica, mockumentary e molto altro in un film visivamente sgargiante, anche troppo. Siamo nel 1965, in un incredibile deserto con al centro un surreale galeone portoghese insabbiato. C’è un suicidio, c’è un giovane ispettore venuto a indagare, c’è un’antica e sinistra leggenda. Si capisce poco, il puzzle è talmente complicato che ci si perde. Però il film – che a Berlino ha molto diviso – ha una sua carica vitale, anche una sfrontatezza che alla fine paga. Acquistato da un distributore italiano. Voto 6 e mezzo
201614525_3Un film iraniano come non lo si è mai visto a nessun festival. Non apparentabile al cinema alto-autoriale di Abbas Kiarostami o Jafar Panahi, e nemmeno al più recente cinema borghese-urbano alla Asghar Farhadi (Una separazione). Anche se il suo regista Mani Haghighi è stato a suo tempo interprete proprio di un film di Farhadi, About Elly. Qui siamo in territori nuovi e spiazzanti per un regular del giro Berlino, Venezia, Cannes ecc. Un film dai colori sgargianti a glamourizzare ai limiti della pornografia estetica cose (una Chevrolet Impala arancione!) e paesaggi (un deserto rossastro con in mezzo un galeone portoghese trascinato lì secoli fa, e incongruo e surreale tra quelle rocce e quelle sabbie). Con dentro una storia di cui riusciamo a catturare i brandelli, non l’insieme, dove si mescolano il genere supernatural con il mystery, la ghost-story, la spy-story, l’hard-boiled alla Chandler-Hammett, il cinema di denuncia (in questo caso del regime dello Shah e delle turpitudini della sua polizia segreta Savak). Un bordello, ecco. Come ammesso dallo stesso Mani Haghighi: “It’s a mess, yeah, it’s a mess“, ha dichiarato impunito alla Reuters. Aggiungendo: “The idea was to make a mess and see how it goes“. Allora, funziona il bordello, anzi “the mess”? Mah, mica tanto, almeno sul piano del racconto, che si fa una fatica bestia a seguire le troppe tracce buttate lì e aggrovigliare inestricabilmente dal perfido Haghighi, che viene il sospetto che abbia voluto prenderci in giro tutti. Quel che è certo è che A Dragon Arrives!, ultimo film a essere proiettato del concorso (e rimasto senza premi), ha diviso nettamente tra chi ha sbuffato e magari è scappato prima della fine e chi ha lo apprezzato come una tra le meglio cose di tutta la Berlinale (nella ricapitolazione dei film della Competition fatta al Palast prima dell’assegnazione degli Orsi è risultato il più applaudito dalla stampa insieme a Gianfranco Rosi e Lav Diaz). Non è per fare il Ponzio Pilato, ma mi collocherei in un punto intermedio tra le due ali estreme, e più prossimo ai favorevoli che ai contrari. Vien da dire: finalmente un film iraniano che non se la tira e non si muove nelle sfere altissime e irrespirabili per carenza di ossigeno del capolavoro d’arte (cinematografica), ma che mescola materiali spurii ed eterogenei arrischiando senza paura e con una certa sfrontatezza il B-movie, divertendosi e, a tratti, divertendoci pur martellandoci la testa con il suo racconto-puzzle. Il quale ingloba, tanto per non farsi mancare niente, oltre ai generi sopra menzionati pure il mockumentary, fingendo una complicata sottotrama – con tanto di interviste a presunti testimoni e protagonisti – di materiali secretati dalla Savak e poi ritrovati decenni dopo nell’Iran post-khomeinista. Allora: Iran, 21 gennaio 1965. Il primo ministro – siamo, ricordo, in pieno regime dello Shah Reza Pahlavi – viene ucciso con un colpo di pistola da un attentatore davanti al parlamento (ecco, già qui Haghighi falsifica e ci depista: non c’è mai stato nessun attentato in quella data, nessun capo del governo è mai stato ucciso a Teheran: siamo dunque anche nel genere fantapolitico). Il giorno dopo vediamo un detective della polizia di nome Babak Hafizi arrivare nel cuore desertico dell’isola di Qeshm, in mezzo al Golfo Persico, a bordo della sua incongrua Impala arancione. La sua missione è di indagare sul suicidio di un detenuto politico avvenuto nel carcere speciale ricavato dall’ex galeone portoghese  trasportato secoli prima da un esercito di schiavi e lì insabbiato. Sulle pareti, accanto al cadavere, brani del diario del defunto, e strane citazioni in aramaico. Naturalmente il bravo poliziotto fa presto a capire che si tratta di un delitto mascherato goffamente da suicidio. Ma cos’è successo? e c’è forse qualche legame con l’attentato al primo ministro? Non è che l’inizio di un’intricata detection con non pochi riferimenti, almeno figurativi, alle varie Marlowe-stories hollywoodiane (il cappello indossato da Hafizi, ad esempio) e che man mano si inoltra in misteriosi territori tra la storia di fantasmi e il complotto da parte di forze oscure e occulte. Nascosta nella stiva della nave carcere verrà trovata, e salvata, una neonata. Intorno alla nave un antico cimitero su cui gravano sinistre leggende, secondo cui ogni volta che viene sepolto qualcuno la terra trema e si squarcia, ed è il motivo per il quale sono anni e anni che lì non si sotterra nessuno. Ma il detective vuole verificare seppellendo il detenuto ucciso, e difatti si scataneranno le oscure energie di quello strano posto, e la terra si aprirà in lunghe crepe e ferite. Per appurare cosa ci sia letteralmente là sotto chiamerà a dargli la mano un sismologo e un tecnico del suono. Intanto scopriamo che Hafizi è un dissidente che boicotta la Savak passando informazioni riservate agli avversari del regime. Le cose degenereranno in un crescendo foschissimo e drammaticissimo, facendo parecchie vittime innocenti e colpevoli. Quanto successo in quel 1965 nell’isola di Qeshm resterà a lungo un mistero, finché a Teheran verrà scoperto, decenni dopo, una scatola custodita dalla polizia segreta con documenti che potrebbe fare luce sui fatti. Ora, il plot è francamente troppo contorto e folle per starci dietro, e viene anche il sospetto che A Dragon Arrives! sia volutamente disseminato di riferimenti cifrati e oscure allusioni all’Iran di ieri e oggi (anche alle religioni preislamiche?), che il regista parli per simboli e metafore comprensibili forse alla platea del suo paese, non certo a noi. Si finisce con il mal di testa per lo sforzo di seguire la labirintica vicenda, e però anche abbastanza soddisfatti del rutilante, perfino fantasmagorico spettacolo che lo sfrontato (la qual cosa nel trattenuto, molto controllato cinema iraniano può essere una qualità) Haghighi ha messo in scena. Una casa di distribuzione italiana, l’Academy Two, è stata la prima a farsi avanti e ad acquistare a Berlino A Dragon Arrives!. Che dunque vedremo nelle nostre sala, anche se in data ancora da stabilire.

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