Festival di Berlino 2016: il film argentino EL REY DEL ONCE (recensione). E Ariel torna alle origini

201606180_1El Rey del Once (The Tenth Man), un film di Daniel Burman. Con Alan Sabbagh, Julieta Zylberberg, Usher Barilka, Elvira Onetto, Adrian Stoppelman. Sezione Panorama.
A012_C005_01017AAriel torna, dopo anni passati a New York, all’Once, il quartiere ebraico di Buenos Aires dov’è nato e cresciuto. Ma il padre Usher sembra volersi sottrarre all’incontro adducendo una scusa via l’altra, e assegnandogli per telefono confuse e stravaganti commissioni. E Ariel, che aveva dimenticato quel mondo, se ne ritroverà sommerso, fino a cambiare irreversibilmente. Una commedia ebraico-urbana più caotica, vitalistica e meno levigata di quelle alla Woody Allen. Anche, un tardivo racconto di formazione assai divertente, e toccante. Voto 7
A002_C023_0101FLEl Once – sta per undicesimo distretto – è il quartiere a più alta densità ebraica di Buenos Aires. Ci torna dopo anni passati a New York il ragazzo attempato Ariel (ormai veleggia verso i 40): avrebbe voluto presentare al padre Usher la moglie, di mestiere ballerina, ma lei se n’è dovuta rimanere lassù in Nord America per via di un’imprevista audizione. E però quel padre mercuriale, assai ricercato e amato dalla gente del quartiere, sembra sottrarsi all’incontro con il figliolo nonostante non si vedano da molto tempo, dichiarandosi sempre assai indaffarato e finendo col comunicare con lui solo per telefono. Anzi assillandolo con le più strane richieste e commissioni. Usher, che ha aperto nel frattempo un centro di sostegno e assistenza ai più bisognosi dell’Once, disloca Ariel lì alla fondazione, gli chiede, meglio gli impone, di risolvere la miriade di piccoli e grandi problemi di gestione, di procurarsi la carne da distribuire per l’imminente festa di Purim nonostante non ci siano soldi in cassa. E son baruffe con il macellaio, e sono strani e saporosi incontri nel caos della fondazione. Apoco a poco, senza accorgersene, il buon Ariel, una pasta d’uomo, si ritrova come un burattino manovrato a distanza via telefono da quel padre così decisa, a esser coinvolto nelle beghe e nei casini non solo del centro di sostegno ma del quartiere tutto. Su una scassata Dyane si sposta da un punto all’altro freneticamente, contraddicendo la sua naturale paciosità e arrendevolezza. Si legherà sempre più a Eva, una donna dal passato che si suppone tormemntato, che per protesta contro il mondo e la famiglia ha deciso di non parlare più. Con lei accanto o senza di lei Ariel si ritroverà in situazioni ora buffe, ora patetiche, ora vagamente surreali. Portare un paio di sneakers a un ragazzo in ospedale per un intervento chirurgico. Ritrovarsi agli incontri tra balli e canti della comunità. Intercedere perché un ragazzo assai effemminato possa finalmente avere il suo bar mitzvah (gliel’avevano rifiutato perché si era presentato in abiti femminili). Indossare, lui ebreo laico, dopo tanto tempo i refillin, i rituali astucci da legare al braccio con strisce di cuoio. E discussioni infinite su cosa sia o non sia kasher. Non succede granché di rilevante in questo film, alm,eno in apparenza. Lo storytelling non comprende momenti pulsanti o climax travolgenti, e però sottotraccia molto si muove, ed è tutto dentro Ariel. Che impercettibilmente, sotto quella regia non dichiarata e apparentemente svagata a distanza del padre, riscopre quella cultura, quel mondo, quell’humus in cui è germinato tanto tempo prima, e poi, se nonm rimosso, di sicuro accantonato. Quel padre invisibile, che a tratti sembrerebbe più una proiezione fantasmatica di Ariel o il ghost di un racconto surreale e che invece esiste (si paleserà per pochi secondi alla fine del film) è colui che lo costringe a ritrovare pezzi importanti di sé, a rifare i conti con l’ebraismo, a prendere nella fondazione di carità il suo posto. Sicché il film altro non è che l’iniziazione, l’insieme di prove e verifiche cui Usher sottopone il figlio perché sia pronto a succedergli. Con il dubbio da parte di noi spettatori che Ariel abbia sì riscoperto parecchio del vero sé, ma forse lo abbia anche tradito per consegnarsi inerme a quel padre forte, e alla tradizione da lui incarnata così prepotentemente. Ma è un’ambiguità drammaturgicamente felice, che rende questo film in apparenza così estroverso e facile assai più complesso e stratificato. Il regista Daniel Burman aveva toccato il suo vertice nella scorsa decade con una trilogia sull’ebraismo di Buenos Aires, vincendo anche un gran premio della giuria a una Berlinale. Conosciuto nelle Americhe e nel Nord Europa, molto meno in Italia, dove non mi pare sia mai arrivato in sala un suo film, e se mi sbaglio correggetemi, grazie. Con El Rey del Once torna ai suoi temi e al suo mondo di riferimento, e centra il bersaglio. Grazie a una macchina da presa a mano/a spalla sta addosso a ambienti e persone consegnandoceli in una sorta di mimesi del reale, di presa diretta sulla vita nel suo farsi. Allestendo una commedia umana festosa e sgangherata, iper vitalistica e volutamente confusa e arruffata con corpi e voci che si mescolano e si sovrappongono, che sembra di starci dentro, all’Once. Come se i personaggi maggiori e minori di tante storie degli scomparsi shetl dell’Europa centrorientale si fossero trasferiti, e miracolosamente reincarnati, lì a Buenos Aires, dall’altra parte del mondo. Chissà che circolazione potrà mai avere questo El Rey Del Once (titolo internazionale The Tenth Man), i giornali americani specializzati scrivono che potrà circolare tutt’al più in qualche festival e in rassegne di cultura ebraica, ma io spero che si sbaglino, che questo family dramedy così lieve e profondo possa arrivare al pubblico più largo, il nostro compreso.

Questa voce è stata pubblicata in cinema, Container, Dai festival, festival, film, recensioni e contrassegnata con , , , , , , , , , , , . Contrassegna il permalink.

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.