Il principe del deserto, Iris, ore 21,00.
Così folle e kitsch da essere diventato, per i pochissimi che a suo tempo lo intercettaroino in sala, uno stracult. O se preferite, guilty pleasure. Epopea beduina ai tempi della scoperta del petrolio nella penisola arabica (e difatti il titolo originale fa Oro nero), tra lotte tribali e mire coloniali, e belle ragazze da da contendere. Un fumettaccio di produzione araba ma tutto di know-how occidentale importato, a partire dal regista Annaud, quello del remoto Il nome della rosa e del più recente L’ultimo lupo, e tratto da un bestseller (svizzero!) degli anni Sessanta. Banderas fa l’emiro. Ci sono anche Tahar Rahim, lo strepitoso Prophète del film di Jacques Audiard, e la sempre meravigliosa Freida Pinto. Però questo kolossal del deserto tutto di capitali di paesi arabo-islamici, una coproduzione tra il tunisino Tarik Ben Ammar e investitori del Qatar, rinnova l’antico sogno (peraltro coltivato anche da Gheddafi quando ci mise i soldi per Il messaggio e Il leone del deserto) di una cinematografia nordafricana e mediorientale in grado di conquistare i mercati globali. Non ha finzionato: questo film è troppo goffo, però resta una curiosità antropologica degna di una qualche attenzione. Stroncatissimo dalla critica bon ton e dal pensiero unico, e però provate temerariamente a dargli un’occhiata.
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