Le avventure di Tintin: il segreto dell’unicorno di Steven Spielberg, Tv8, ore 21,15.
Con Tintin, tratto da un fumetto europeo dei più classici, Spielberg realizza qualcosa che è a metà tra il film di attori e l’animazione, grazie alla tecnologia della performance capture. L’intreccio sa di vintage, con i suoi galeoni che custodiscono tesori e le avventure tra harem e Legione Straniera. Ma la la confezione è strabiliante, di una visualità e visionarierà quasi sperimentali (e Spielberg si toglie pure lo sfizio di citare Magritte). Voto 8
Le avventure di Tintin – Il segreto dell’Unicorno, regia di Steven Spielberg. Con Jamie Bell, Andy Sarkis, Daniel Craig, Nick Frost. Coprodotto da Steven Spielberg e Peter Jackson.
Motivo di un certo orgoglio per chi è di Milano (come me) e ama Milano (come me): si parla parecchio in questo nuovo film spielberghiano di un’arma speciale e assai misteriosa chiamata ‘usignolo milanese’ (the melanese nightingale). Si scoprirà trattarsi di una cantante d’opera scaligera che con i suoi acuti e trilli servirà al villain per far saltare un’urna di cruciale importanza. Perdonate questo modesto spoiler, e passiamo al film. Che è il miglior Spielberg da parecchio tempo a questa parte, uno Spieberg che ha ritrovato la voglia di sorprenderci e divertirci – e di divertirsi pure lui, dopo che ultimamente l’avevamo visto malinconicamente perso in cose malriuscite come Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, con quell’Harrison Ford non più guardabile fino all’imbarazzo, suo e nostro. Il più grande moneymaker di Hollywood sembra davvero tornato ai tempi belli del suo film migliore di sempre (insieme a L’impero del sole), ovvero I predatori dell’arca perduta. Questo Tintin è – proprio come l’inarrivabile Raiders of the Lost Ark – l’avventuroso ingenuo e semplice di una volta, quello dei film anni Trenta con Douglas Fairbanks, quello dei fumetti popolari tra le due guerre e poco oltre, con le trame fatte di poco ma appassionanti, con i buoni e cattivi tutti di un pezzo e senza la minima sfumatura. Figuriamoci, in questa storia son tutti alla caccia di un veliero (o è un galeone? mai capita la differenza, grazie a chi me la spiega) del diciassettesimo secolo affondato chissà dove con il suo tesoro. Roba da Paperino e il vascello scomparso, che ormai non usano e non osano più neppure in casa Disney, visto che i bambini d’oggi ingozzati a playstation non saprebbero che farsene di simili trame. Spielberg invece ha il coraggio di resuscitare quell’immaginario sepolto, e sommerso peggio del carico d’oro del suo galeone, ed ecco che ci infila pure la mappa del tesoro (divisa in tre tronconi da sovrapporre!), il morto che con il sangue scrive il suo ultimo e rivelatore messaggio, i castelli sinistri dagli antri bui, gli idrovolanti, i pirati, la disgressione esotico-orientalista nei deserti con tanto di dune altissime, Legione straniera e corte dell’emiro. Appunto, come in I predatori dell’arca perduta, che Spielberg (auto)cita un’infinità di volte, vedi, tanto per dirne una, la sequenza della fuga dall’emirato che tanto somiglia a Indiana Jones inseguito tra i vicoli del Cairo.
Circola una voce su questa nuova impresa spielberghiana: che quando I predatori uscì in Europa qualcuno scrisse che molte cose erano rubate a Tintin, fumetto-istituzione inventato dal belga Hergé nel 1929 e continuato nei decenni successivi fino a consolidarsi come un’icona della pop culture francofona. Pare che Spielberg non lo conoscesse per niente, così si informò, lesse, si divertì, si appassionò, scoprì l’universo meravigliosamente naïf e insieme sofisticato di Tintin, il reporter-ragazzo con il ciuffo e il maglioncino azzurro e il fedele cane Milou, sempre alle prese con intricati casi da risolvere. Fu, si dice, coup de foudre, e il re dei colossi hollywoodiani decise che ne avrebbe fatto un film prima o poi. Ci sono voluti quasi 30 anni, con qualche traversia produttiva di mezzo, e finalmente il film è qui, sorta di Ur-Indiana Jones, di ritorno al testo primigenio che di Indiana Jones è l’anticipatore, il precursore e la matrice. C’era il pericolo, come accade spesso con i progetti troppo rimandati, che il film deludesse e sbroccasse. Invece per niente. Spielberg sembra rivitalizzato da questo ritorno a una materia che evidentemente gli è congeniale più di ogni altra, la ragazzineria, il parco giochi dove storie fantasmagoriche si incrociano e si moltiplicano. Dev’essersi reso conto però che per fare digerire al pubblico di oggi, molto più scafato di quello che negli anni Ottanta aveva decretato il successo dei Predatori, doveva quel materiale narrativo un po’ vetusto lucidarlo e makeupparlo con lo scintillio della tecnologia. Così astutamente ha chiamato al suo fianco come co-produttore il Peter Jackson del Signore degli anelli (che girerà, è già deciso, il sequel di Le avventure di Tintin), uno che con gli effetti speciali più speciali ha dimostrato di saperci fare ed è tra i massimi esperti delle ultime diavolerie digitali in fatto di ripresa cinematografica. Ecco la decisione di utilizzare per Tintin la performance capture 3D, che se ho capito bene (se sbaglio mi correggerete, giusto?) vuol dire che si gira con gli attori in carne ed ossa riprendendone tutti i movimenti e poi li si trasforma in un modello digitale. Non è che a Hollywood la performance capture goda di buona fama dopo che Robert Zemeckis ci è ricorso per tre film disastrosi, Polar Express, Beowulf e A Christmas Carol, tutti flop di tali dimensioni che Zemeckis ne è uscito con la reputazione distrutta. Invece stavolta il marchingegno funziona, perché i due marpioni Spielberg-Jackson ci sanno fare, soprattutto perché la performance capture dà la possibilità a Spielberg di realizzare un film che è nello stesso tempo live action e animazione, in cui miracolosamente i personaggi sono umani, in carne ed ossa, e insieme fugurine piatte, bidimensionali (quelle facce e quegli sfondi senza sfumature, quelle silhouette pulite, nette e grafiche, come disegnate da una matita, quella fissità da icona bizantina). Linguaggio e tecnica perfettamente adatti alla trasposizione in cinema di un fumetto come quello di Hergé che è graficamente pulito, di un nitore assoluto e classico, perfino spoglio: ligne claire, appunto. Stavolta la tecnologia diventa esperienza estetica nuova, occasione per valicare i limiti del già rappresentato, e anche il 3D viene usato come mai s’era visto, a parte forse alcuni spezzoni di Avatar. La cosa non ha convinto tutti. In particolare la stampa britannica (il Guardian e il Telegraph) si è dichiarata perplessa. In effetti quella della performance capture è una delle scommesse forti del film. Per un buon quarto d’ora e anche più fatichi a credere a quegli essere umani e non umani insieme, che ti passano davanti sullo schermo, hai l’impressione che il film oscilli paurosamente tra il realismo e il fantastico (e l’inverosimile) senza mai trovare un baricentro, poi però ti rendi conto che è quella speciale scelta tecnico-estetica a fare di Tintin qualcosa che non sia solo citazione e déjà-vu, che ricorda e duplica sì il repertorio narrativo e visuale di I predatori dell’arca perduta ma anche lo travalica. Da questo punto di vista, Tintin è un film sperimentale e super autoriale, estremo e ai margini. Non è così scontato che abbia un successo travolgente (io spero di sì), il pubblico potrebbe anche rigettarne la visualità così poco convenzionale e mainstream e, nonostante l’apparente fragorosità pop, così sofisticata. Credo che la stessa produzione qualche timore ce l’abbia, se ha deciso di far uscire il film prima sul mercato europeo (la prima mondiale è stata a Bruxelles, nel Belgio patria di Hergé e Tintin) e solo più tardi, il 21 novembre, su quello nordamericano. C’è anche un’altra incognita, ed è che il pubblico dei popcorn movie e dei multiplex, pubblico prevalentemente maschile tra i 18 e i 30 anni, non riesca ad appassionarsi ad avventure così polverose come quelle di Tintin, così smaccatamente retrò, anche se Spielberg fa di tutto e anche di più per confezionare uno spettacolo da lasciare senza fiato. Però il ritmo non è così travolgente, così survoltato e ipercinetico come certi spara-spara di adesso, c’è una cura dei dettagli che potrà accontentare il pubblico più maturo ma annoiare teenager e ventenni. Sarebbe un peccato se Tintin non funzionasse. Questo è cinema fantastico-avventuroso ai suoi massimi livelli, e Spielberg si concede il lusso di girare altrettanto avventurosamente piani-sequenza di mirabolante virtuosismo, movimenti di macchina da presa che attraversano mari monti e cieli e atterrano e poi ridecollano senza stacchi, e scene lunghe e complesse con una perfezione ritmica da musical. Film di tecnica sbalorditiva, ma anche di audacia estetica rara. Spielberg non si nega nemmeno qualche civetteria colta, citando qua e là il gran conterraneo di Hergé, il surrealista Magritte. La coppia degli sbirri in bombetta viene dritta da I misteri dell’orizzonte e altre opere magrittiane, la sequenza di Tintin che cammina illuminato dai lampioni ha qualcosa (molto) delle atmosfere sospese dell’Empire de la lumière. Film di visioni, di molte visioni. Di immagini formidabili. Il vascello allucinato da Haddock che appare sulle dune del deserto, ed ecco che la sabbia si trasforma in onde del mare. La fuga dalla corte dell’emiro. Il duello al porto tra le gru. Spielberg è tornato ad essere il signore dello spettacolo filmico come una volta e questo suo Tintin è tutto da godere. (Certo, si fatica a riconoscere gli attori dopo che sono stati trattati dalla performance capture. Jamie Bell, che è Tintin, sembra il figlio di Tilda Swinton con quei capelli color carota e chi mai direbbe che è lo stesso attore che in Jane Eyre interpreta il reverendo tormentato? Il povero Daniel Craig, che fa il cattivo, poi non assomiglia neanche lontanamente al suo sexy Bond).
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