(al cinema) recensione: LAND OF MINE. Un film onesto su una pagina di storia rimossa

2jWhs0B7BE7D04ffuGWBgzOVyXospD7kKNsjHtq2pnU,y-aq_ovNAgzLmimXNhYlZlqcCNyA4RK9QVITSbx50s0,lBBIUIIAzJpR-ISAtX6LomF8ZUGSNmrlit9DLqzw2Z45aBFCQd6y946hDcSClJdxm7twgN9RuD1nF0bKUK53uE,ki3xsq-UILRkLCKz9vnONbD8Z_7_no-e_tf5vjB-u9ILand of Mine – Sotto la sabbia, un film di Martin Zandvliet. Con Roland Møller, Louis Hofmann, Mikkel Følsgaard, Laura Bro, Joel Basman, Emil Buschow, Oskar Buschow. Danimarca 2015.
wvIOZ8-NcoEDteCZuc-nh0E8QdAOqkWWHX8NP4p-qfU,i8rZfPiVz34dHj27skVjaooTffUWCL7M8hUeWXZkvP0,YF4bca97feBxzJzhrWEWtErPtSEJ4EXwUGbGDPug6EAg1gg-39VeW9IXD_DDJ40kA9dZY7DdEV1DMnn91hYMfI,DGowuyFkKXqmmPEJj_kBLPwD3E293rpf0ihPbGc13jA,3h5-Fo7lYltdnNYajQv4sDNeTmZbuRKCUKFTGp8Ha7cFilm danese di enorme successo in patria ed esportato in tutto il mondo. Che va a indagare una pagina rimossa della storia del Novecento. Maggio 1945, la guerra è appena finita, ma restano milioni di mine piazzate sulle spiagge dello Jutland dagli ex occupanti nazisti. A ripulirle saranno proprio i prigionieri tedeschi, organizzati in squadre di lavoro forzato. Moriranno in migliaia. Il film ce ne mostra un gruppo, agli ordini di un inflessibile sergente. Un racconto di massima suspense e dalle nobili intenzioni di denuncia, con l’enorme merito di mostrarci la storia dalla parte dei vinti. E però cinematograficamente rinunciatario. Voto tra il 6 e il 7CaGxLcv_XUGEmwDzkLhDId8zo6CBF701OsT0TlFxXu8,pADqClRotAuAOcfCtJHtW7TiDk8wtI3MxoSn1vC9agE,4AY2hlQMNJQiTKf5e4wH6Cv-1fuTtyeY8vFvuEHxso4

Ci sono film che valgono per la storia che raccontano. Che sono quello che raccontano e non come lo fanno. Film che si identificano e si compenetrano con il loro contenuto e nei quali la forma sembra superflua o ininfluente o secondaria. O non esserci, assorbita dalla fattualità e dal reale (anzi, dalla sua simulazione). Il danese Land of Mine è di questi film. Onesto, diligente, e però cinema non travolgente fino a rischiare la piattezza e unidimensionalità veterotelevisiva, della televisione prima della grande serialità, con una regia vassalla e ancella del racconto, certo di massima funzionalità ma senza azzardi. Ecco, non propriamente il cinema che amo, e però come si fa a farsi dispiacere Land of Mine? Che ha il merito non piccolo di scoperchiare una pagina vergognosissima e bastarda della storia della Danimarca, del suo e del nostro Novecento. Che ha il coraggio  – châpeau al signor Martin Zandvliet, regista e sceneggiatore – di proporci un pezzo tragico del dopoguerra visto dalla parte dei vinti, dei tedeschi, dei soldati tedeschi, che qui non sono i soliti carnefici stereotipati e fissati psicoticamente nel secco batter di tacchi e nell’Heil Hitler!, ma vittime. Incontrovertibilmente vittime. No che non si fa del revisionismo storico, non che non si ridistribuiscono le colpe, le condanne e le assoluzioni sovvertendo quanto ci è stato detto dalla fine della WWII, semplicemente Zandvliet va a indagare in una scatola rimossa o nascosta chissà dove negli archivi della coscienza nazionale, ne tira fuori quel che ci stava dentro e ce lo sbatte in faccia come un monito. Perché la cosa non riguarda solo Danimarca e danesi, ma noi – europei, occidentali – che, sull’onda della propaganda (anche sacrosanta) dei vincitori abbiamo girato la faccia dall’altra parte per non guardare i vinti e le loro sventure (vogliamo parlare delle donne tedesche stuprate dai russi, 100mila solo a Berlino? o dell’esodo a milioni dalle terre dell’est per sfuggire all’Armata Rossa?). Ecco, Land of Mine non sarà, non è, un capolavoro, usa il mezzo-cinema per testimoniare e restituire i fatti e le storia e la Storia e lo usa al minimo dell’artificio e fors’anche delle potenzialità, ma va (abbastanza) bene così. Siamo nel maggio del 1945, la Germania è appena stata sconfitta, la Danimarca è uscita da cinque anni di occupazione tedesco-nazista. Con però parecchie lacerazioni e questioni non risolte, non ultima i milioni di mine che la Wehrmacht ha disseminato sulle coste occidentali dello Jutland nella previsione, che si sarebbe rivelata sbagliata, di uno sbarco alleato da quelle parti (la sorpresa gliel’avrebbero fatta invece molto più giù, in Normandia). Adesso si tratta di toglierli, quegli ordigni, di ripulire i litorali, e a Copenaghen pensano bene, anzi malissimo, di impiegare come sminatori i prigionieri di guerra tedeschi. I documenti dicono che fu un massacro, che i tedeschi dirottati a disinnescare, perlopiù ragazzi, morirono a migliaia, letteralmente maciullati. Reclutamento ignobile, perché realizzato in spregio alla Convenzione di Ginevra del 1929 che vietava l’impiego di prigionieri di guerra in lavori forzati o pericolosi. Con le autorità danesi, appoggiate da quelle britanniche vincitrici, che per aggirare la Convenzione cambiarono lo status degli sminatori da prigionieri di guerra a persone volontariamente arrese al nemico, un make up nominalistico e formale che non cambia la sostanza delle cose. Una storia atroce, che ci fornisce un quadro del dopoguerra assai meno rassicurante di quello consegnatoci dalla vulgata dominante stabilita dai vincitori e anche da certa storiografia, un quadro intriso di rancori, vendette, rappresaglie, rese dei conti. Di programmatica disumanizzazione dei vinti da parte dei nuovi padroni. Land of Mine narrativizza e traspone in forma drammatica quei fatti, presentandoci esemplarmente, anche troppo, un pugno di prigionieri tedeschi, tutti ragazzi tra i 15 e i 18 anni, gli ultimi precettati dal Reich morente, mandati a togliere decine di migliaia di mine sullo Jutland agli ordini di un sergente di nome Rasmussen. Vengono trattati come bestie, letteralmente come carne da macello, vengono tenuti a digiuno per giorni e giorni, sono malvisti dalla gente del posto che non ha dimenticato l’occupazione. Assistiamo a quei rapporti padrone-schiavo e a quelle malversazioni già molto indagati dal cinema sui campi di prigionia, da Il ponte sul fiume Kwai a La grande fuga a Furyo di Nagisa Oshima. Da cui si riprende un qualcosa, ma solo un qualcosa perché qui ogni torbidume è rigorosamente e virtuosamente espunto, della reciproca fascinazione tra prigionieri e sorveglianti. Il duro Rassmussen man mano si ammorbidirà nel vedere quei regazzi rischiare la vita là in mezzo alla sabbia a togliere detonatori e spolette (scusate le approssimazioni tecniche, ma di espolosivi nulla so), fino a stabilire un dialogo con il più sveglio e acuto del gruppo, l’adolescente Sebastian. Ma è una pista narrativa che il film accenna appena e che il regista si guarda bene dal seguire, solo un pulviscolo drammaturgico per rendere meno statica la narrazione. Che è, purtroppo, piatta come le infinite spiagge da ripulire. Si cerca di sbalzare fuori qualche carattere individuale all’interno del gruppo, ma si resta alla fase dell’abbozzo, lo stesso si dica del truce superiore di Rassmussen e della vicina della fattoria, figure timidamente tratteggiate. Hitchockianamente, ma senza troppo volerlo, si punta sulla suspence del: quando scoppierà la mina? e chi ne sarà la vittima?, quasi citando Sabotaggio dello stesso Hitchcock, con quel bambino ignaro trasportatore di un ordigno che lo spettatore sa benissimo quando e come deflagrerà. Da questo punto di vista, Land of Mine è racconto tesissimo perfettamente in grado di inchiodare alla poltrona il pubblico e non dargli tregua. Ma in un film così nobilmente volto alla denuncia di un orrore della storia, la forma del thriller non viene mai utilizzata scopertamente, la si tira fuori e subito la si dissimula sotto il racconto minimale e sobrio dei fatti per non incorrere – non sia mai! – nell’accusa di exploitation. E però per troppo rispetto e per troppa virtù, il regista-sceneggiatore finisce col rendere qua e là alquanto anoressico il film. Si accennano molte tracce, senza però mai seguirle con decisione. La stessa parabola psicologica e di comportamento di Rasmussen resta ondivaga, contraddittoria, incerta, passando incongruamente dalla spietatezza all’empatia e ancora alla durezza. Land of Mine è importante per quello che scoperchia, ma resta un film che non ce la fa a andare oltre la medietà e il decoro, e non ce la fa mai a trasformarsi in puro cinema, in visione. Grandissimo successo al box-office danese e venduto in molti paesi. Vincitore di un gran numero di Bodil Awards, i più importanti cinepremi nazionali, battendo nella categoria miglior film perfino il bellissimo A War di Tobias Lindholm visto a Venezia Orizzonti, e che gli è di parecchio superiore. E però ha dalla sua l’essere diventato un caso, l’aver costretto la Danimarca a interrogarsi sul suo passato e a farci i conti.

 

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