(al cinema) recensione: IL CONDOMINIO DEI CUORI INFRANTI. Un buon film dal titolo assurdo

106211Il condominio dei cuori infranti (Asphalte), un film di Samuel Benchetrit. Con Gustave Kervern, Isabelle Huppert, Valeria Bruni Tedeschi, Michael Pitt, Jules Benchetrit, Tassadit Mandi, Larouci Didi. Francia 2015.
104492Tre strane coppie in un desolato condominio di una qualche banlieue francese. Un film di osservazione con slittamenti progressivi nel surreale, nel nonsense. Con perfino un’astronauta americano atterrato sul tetto che impara ad apprezzare il couscous di un’immigrata algerina. Niente di travolgente, e però un film assai ben scritto e con un tocco che ricorda, pur se in forma addolcita, quello di Roy Andersson. Samuel Benchetrit è autore da tenere d’occhio. Peccato per il balordo titolo italiano, che tradisce l’originale Asphalte e non c’entra neanche con le storie raccontate. Voto 7+
108242Oscar per il titolo più balordo dell’anno. Ma perché chiamare Il condominio dei cuori infranti un film che nell’originale francese fa Asphalte e che ha per titolo internazional-inglese Macadam Stories, vale a dire Storie da marciapiede? Entrambi assai più fedeli a quello che vi si racconta. Che poi sì, nel film il condominio c’è (desolatissimo in una desolata periferia urbana che potrebbe essere in ogni dove francese), ma dentro di cuori infranti ce n’è tutt’al più uno e mezzo, uno è il personaggio interpretato dal regista-attore Gustave Kervern, l’altro quello dell’attrice decaduta Isabelle Huppert appena mollata dal suo tizio, elemento, questo, mica tanto centrale nell’economia narrativa. Però bisogna ammettere che Il condominio dai cuori infranti, benché assolutamente improprio, fuorviante e incongruo, è titolo ruffiano al punto giusto, con quel sapore melassoso da San Valentino, in grado di convogliare al cinema qualche spettatore (e spettatrice) che di fronte ad Asfalto si sarebbe prontamente eclissato senza lasciare tracce di sé. Allora va (abbastanza) bene così, visto che il film è buono, non quella specie di capo d’opera di cui straparlano certe recensioni, ma buono sì, e qualche aiutino se lo merita. A Cannes 2015, collocato tra le proiezioni speciali, era finito sommerso dagli altri titoli più mediatizzati del concorso e io non solo me l’ero perso, ma non me n’ero accorto proprio, nonostante la presenza di nomi di peso come Isabelle Huppert e Valeria Bruni Tedeschi. L’uscita adesso in sala per opera di Cinema distribuzione consente il recupero, e devo dire che ne vale la pena. L’uomo che sta dietro la macchina da presa, Samuel Benchetrit, è presenza abbstanza eccentrica e non allineata del cinema e, più in generale, del sistema culturale francese, un quarantatreenne che è stato, è, attore, regista, sceneggiatore, scrittore, anche pittore, arrivato qui alla sua direzione filmica numero sette, e non è poco. Questo è probabilmente il suo risultato migliore, certo quello che ha avuto in patria e adesso anche da noi più riscontri da parte di critici e spettatori. Asphalte deriva da una trilogia letteraria scritta dallo stesso Benchetrit tra 2005 e 2010, cronache – almeno da quanto se ne percepisce dal film – tra il surreale e il minuto realismo quotidiano di vite qualunque come travolte dal non-senso e dall’assurdo, tra malinconie, disincanti e illusioni. Con dentro, chissà, forse una qualche eco autobiografica traslata e ben mimetizzata. Intanto, stando alle interferenze e corrispondenze tra opera e vita (dell’autore), il ragazzino che interpreta Charly e che con gran piglio tiene testa a quel mostro di professionismo che si chiama Isabelle Huppert è il figlio dello stesso regista, avuto dal matrimonio con Marie Trintignant: ebbene sì, la figlia di Jean-Louis uccisa nel 2003 dal suo compagno di allora Bernard Cantat, frontman del gruppo Noir Désir. E dunque, per riassumere genealogie e reti parentali, Samuel Benchetrit è l’ex genero di un totem del cinema francese come Trintignant, e il più giovane attore del suo film di Trintignant è il nipote. Motivo in più per non perderselo, questo Condominio dai cuori infranti. Girato – ho letto da qualche parte – a Colmar, Alsazia, ma come scagliato in un non luogo che nella sua genericità e astrazione sta per ogni possibile punto di massima sfiga abitativa in terra di Francia, il film si ambienta in un palazzetto di rara orrendezza e squallore. Lercia e piena di bidoni la strada su cui si affaccia, frequentata da teppistelli, spacciatori e tossici, e lerci gli spazi comuni interni, con un ascensore che non va e tende a intrappolare l’incauto utilizzatore. Tant’è che si parte con un classico, la riunione dei condomini per decidere se metterci o no un po’ di euro per sistemarlo. Facciamo così la conoscenza dell’arruffato Sternkowtiz, l’unico a rifiutarsi di pagare la sua quota “perché sto al primo piano e l’ascensore non lo uso” (non ci crederete, ma alla riunione di condominio mia ho sentito la stessissima frase). Vive solo, perderà temporaneamente l’uso delle gambe e sarà costretto a usarlo, l’ascensore, di straforo (non avendo pagato gli è stato interdetto). Dice di essere fotografo, di girare il mondo, di lavorare per le meglio riviste, ma non è mica vero. Son le palle che racconta a un’infermiera di notte incontrata nel vicino ospedale dove lui si introfula a prendersi le merendine della mcchinetta, infermiera (Valeria Bruni Tedeschi) per cui lui prontamente perde la testa. È la prima strana coppia di questo film che ne presenta altre due. Quella dell’immigrata algerina Hamida (con figlio in galera) che si vede arrivare in casa un astronauta della Nasa finito con la sua capsula di rientro sul tetto del palazzo, e quella tra i due vicini di pianerottolo Jeanne Meyer, attrice alcolista ormai fuori dal giro, e l’adolescente Charly. Il film non è altro che il progressivo svolgersi di queste tre relazioni, ognuna a modo suo sghemba, incongrua, impossibile, eppure alla fine possibile, perché non c’è niente come la tristezza del vivere, la solitudine, l’alienazione o magari la curiosità e la disponibilità verso l’altro a far incontrare e avvicinare, a far passare le persone da atomi e monadi a parti di un sistema di scambio e comunicazione. Si sorride, nel vedere l’immigrata algerina e l’americano capirsi a gesti, e quando lui se ne va per rientrare alla Nasa e lei gli dà il tupperware con il cous cous per il viaggio, vien voglia di applaudire. Intanto il ragazzino ha convinto l’attrice a rimettersi in pista, a mandare un suo video a un casting. Intanto tra il finto fotografo e la vera infermiera la distanza si riduce sempre di più, lasciandoci sperare in un happy end. Sceneggiatura accurata, molto scritta, densa di invenzioni e torsioni, per niente ovvia, e la mano di Benchetrit regista è sapiente, il suo sguardo partecipe ma non invasivo. Con derive surreali e un tocco deadpan (soprattutto nel personaggio di Gustave Kervern) che qua e là ricordano il cinema di Roy Andersson. Niente di travolgente, e però un film dall’impronta assai personale, che evita con intelligenza le secche del film di denuncia sulla condizione delle banlieue. Tant’è che vien voglia di conoscere meglio Benchetrit e i suoi lavori precedenti.

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