La canzone perduta (Song of my mother), un film di Erol Mintaş. Con Feyyaz Duman, Zubeyde Ronahi, Nesrin Cavadzade, Aziz Capkurt, Cuneyt Yalaz, Mehmet UÅNnal, Sabiha Bozan, Isa Berivane, Ferit Kaya, Incinur Dasdemir. Vincitore come miglior film al festival di Sarajevo 2014. E, sempre a Sarajevo, premio come migliore attore a Feyyaz Duman. Distribuito da Lab 80.
A Istanbul, nell’enclave curda dove vivono le famiglie che hanno dovuto lasciare anni fa i loro villaggi (per uno sgombero forzato? per una pulizia etnica?). Ritratto da vicino di un’anziana madre e del suo figlio devoto. Convivenza complicata, di cui il giovane regista coglie ogni sfumatura. Ma quella che sembra una storia privata man mano rivela ben altro: la questione curda, la diaspora di una comunità nella Turchia di oggi. Eppure La canzone perduta non è un film politico e militante, è un film sommesso e sobrio che non urla messaggi, che poco esplicita e molto allude. Una bella scoperta. Voto 8
Passare magari dalla visione di Batman V Superman a questo film piccolo, ma non minore, venuto dalla Turchia, anzi dall’interno della minoranza curda cui il regista Erol Mintaş appartiene. Passare da un colosso da centinaia di milioni di dollari a una produzione indipendente, di una cinematografia laterale, giusto per sperimentare quanto sia vasto e differenziato e molteplice il continente cinema, con i suoi territori emersi e ben visibili e altri semisommersi. Sempre che La canzone perduta, distribuito dai cinefili appassionati e rigorosi di Lab 80, sia ancora rintracciabile, come spero, da qualche parte (consultare il sito di Lab 80). Film bello e pudico, di quelli che non gridano ma silenziosamente, educatamente sollecitano la nostra attenzione, vincitore del festival di Sarajevo 2014 – appuntamento ormai cruciale e strategico per conoscere il cinema est europeo e balcanico – e film che bisogna vedere prima che scompaia ingoiato dal solito buco nero. La canzone perduta risulta essere al primo sguardo un ritratto assai minimalista e sommesso, di un neo-neorealismo quieto tra i Dardenne e il primissimo Olmi, di un rapporto madre-figli, per poi man mano complessificarsi e stratificarsi annettendo in corso di racconto, senza quasi che ce ne accorgiamo, questioni più ampie, come la condizione curda, oggi e ieri, in una Turchia sempre parecchio complicata per le minoranze. Il giovane regista sceglie una narrazione ellittica, con ampie zone di alluso e non-detto, forse per una scelta stilistica di rigore estremo, di sobrietà e pudore, fors’anche per non urtare con accenni troppo espliciti la eterna ipersensibilità turca rispetto alla questione curda. Ci vengono forniti indizi, accenni, labili tracce di un quadro di riferimento che tocca a noi ricomporre e decifrare. L’opposto del film militante, apertamente politico, che urla davanti a noi le sue istanze e le sue ragioni. Qui grazie a Dio non si pretende la nostra solidarietà, non si invoca nessuna nostra forma si impegno, semplicemente si racconta, e si racconta bene. Con un’efficacia che è direttamente proporzionale alla sobrietà e se ne nutre. L’apertura del film è in un villaggio curdo nei primi anni Novanta, con un giovane e appassionato maestro che alla sua classe racconta, recitandola e mimandola, la parabola di un corvo che voleva essere un pavone, una storia che più avanti capiremo appartenere alla tradizione orale curda. Irrompone nell’aula degli uomini non identificati che lo portano via. Di lui non sapremo più niente. Vent’anni dopo, azione e narrazione ripartono da Istanbul, da un quartiere diventato un’enclave curva, famiglie che han dovuto lasciare le montagne e inurbarsi forzati da un qualcosa che non ci viene detto ma che intuiamo essere una specie di pulizia etnica, e che hanno ricreato qualche legame comunitario lì, nella più grande e cosmopolita delle città turche. L’uomo scomparso a inizio film ricompare solo brevemente in una fotografia custodita da Nigar, l’anziana donna protagonista. Un figlio perduto e ucciso, probabilmente. Adesso Nigar è andata a vivere con il più giovane dei suoi figli, Ali, anche lui maestro. Coabitazione complicata assai. Ali è un figlio devoto, ma Nigar è cocciuta, non le piace stare chiusa in quell’appartamento, vorrebbe tornare al villaggio, è ossessionata da quel ritorno, ne parla continuamente. Man mano capiamo che quel villaggio non esiste più, è stato distrutto, e che Nigar ormai vive in una sorta di alterazione della mente, di follia, che le fa scambiare il sogno impossibile per realtà possibile. Chi ha avuto a che fare con una madre anziana non farà fatica a ritrovarsi nei bisticci e rimbrotti e rinfacci reciproci tra Nigar e il buon Ali, raccontati con esattezza dal giovane regista che probabilmente ci ha messo dentro un qualcosa di autobiografico. In questa storia di famiglia entrano a poco a poco altre storie e figure, la ragazza di Ali appena rimasta incinta (lui vorrebbe che abortisse, lei no, e il pur buono Ali ha con lei un rude e ottuso rapporto da maschio d’epoca che non sospetteresti in lui), un altro fratello che comunica via Skype e non può tornare in Turchia, probabilmente per via di un qualche conto aperto con la giustizia per motivi politici. Ma anche qui niente ci viene spiegato. C’è un altro figlio, il meno istruito, che vive pure lui a Istanbul. Ali è l’intellettuale riuscito, ha pubblicato una raccolta di racconti tradizionali curdi, passa dalla lingua della sua gente a quella turca, in un bilinguismo che riflette con evidenza un io diviso. Da una parte il sogno e il bisogno di una vita organizzata sulle proprie aspirazioni, dall’altra l’appartenenza assai condizionante a una comunità, a una storia pesante. Il regista ha l’abilità di trovare un pretesto narrativo intorno al quale inanellare a poco a poco i rapporti tra madre e figlio, e la raffigurazione dell’environment curdo a Istanbul. Ed è una misteriosa canzone della tradizione, di quelle che venivano portate di villaggio in villaggio dai cantastorie, i dengbej. Canzone amatissima da Nigar, eseguita da un dengbej di cui solo lei ricorda il nome, ma che tutti nella comunità hanno dimenticato: “Aveva una voce talmente bella che faceva salire i grani d’orzo sui muri!”. Ali, il buon figlio, si sbatte per rintracciare la cassetta del pezzo, che però sembra sempre sfuggirgli, forse perché non esiste ed è soltanto un’altra proiezione della mente provata di Nigar. La canzone perduta è di quei film che esigono la nostra pazienza e la nostra disponiblità, ma che poi ripaga con gli interessi. Una delle belle sorprese di questa annata cinematografica. Vederlo è farsi del bene.
CERCA UN FILM
ISCRIVITI AI POST VIA MAIL
-
-
ARTICOLI RECENTI
- Cannes 2023. Vince “Anatomia di una caduta” di Justine Triet (e tutti i film migliori entrano nel palmarès)
- Cannes 2023. Recensione: LES HERBES SÈCHES, un film di Nuri BiIge Ceylan. Il migliore del concorso
- Cannes 2023. LA MIA CLASSIFICA FINALE del concorso
- Cannes 2023. Recensione: LE FEUILLES MORTES, il Kaurismaki assoluto. Da Palma d’oro
- Cannes 2023. Recensione: LES FILLES D’OLFA di Kaouther Ben Hania. Una famiglia e la storia della Tunisia
Iscriviti al blog tramite email