This Must Be The Place, Rai Movie, ore 23,59.
This Must Be The Place, di Paolo Sorrentino. Con Sean Penn, Frances McDormand, Judd Hirsch, Harry Dean Stanton, David Byrne.
Sorrentino è bravo, bravissimo. Troppo. Gira un film di livello internazionale senza la minima soggezione, muove la macchina da presa come pochi, ha il talento della visionarietà e della bizzarria. Mette a un punto un personaggio, la rockstar Cheyenne in disarmo, che non si dimentica e cui Sean Penn aderisce con impressionante fisicità. Quella sua sua faccia da clown triste, quel mascherone da prostituta di un vecchio bordello, è già cosa nostra, cosa di tutti. Ma il film nonostante il talento immenso di autore e interprete non funziona, non costruisce una narrazione credibile, non riesce a saldare la prima parte (quella irandese) alla seconda (quella americana). Soprattutto, Sorrentino e Penn si sfrenano oltre ogni controllo e intasano lo schermo di un eccesso di segni visivi. Sicché dopo due ore (troppe, troppe) si esce frastornati e insoddisfatti. Voto 5.
(recnsione scritta all’uscita del film)
Calma. Calma ragazzi. Qui tanti, troppi, già parlano e straparlano di possibile Oscar, anzi possibili. In primis per Sean Penn, che scolpisce la sua rockstar in disarmo Cheyenne, pittata come una vecchia prostituta sfatta di un bordello tra le due guerre, con anche troppa abilità mimetica, in una sorta di trance che va oltre ogni più radicale ed estrema immedesimazione strasberghiana. La sua candidatura all’Academy Award è già stata avanzata plebiscitariamente dalla stampa italiana (quella internazionale è più prudente e ironicamente distaccata dalla faccenda). Lo stesso regista Paolo Sorrentino in un’intervista rilasciata alla Rai si è lasciato sfuggire che “l’Oscar non è una priorità, ma sarebbe bello…”, confermando mentre lo negava che all’Oscar ci pensa eccome. No, calma. Per partecipare ai prossimi Oscar regolamento vuole che un film esca in almeno una sala americana entro il 31 dicembre 2011, e per This Must Be The Place la cosa non è niente scontata. Le ultime notizie ci informano che il film ha finalmente trovato, dopo mesi di attesa (la prima mondiale al festival di Cannes è del maggio scorso), un distributore americano nella potente Weinstein Company del vulcanico Harvey Weinstein, uno che, se vuole, molto riesce a fare. Solo che la casa pare che non abbia nessuna intenzione di far uscire Sorrentino quest’anno per non danneggiare la corsa agli Oscar di altri film del proprio listino come The Iron Lady, il biopic sulla Thatcher interpretato da Meryl Streep, W.E. di Madonna e soprattutto il francese The Artist, acquisito da Weinstein molto prima di This Must Be The Place e in tutta evidenza considerato testa di serie. Se così fosse, niente candidature per Sean Penn e il film, e i giochi verrebbero rimandati agli Academy Awards 2012, complicandosi parecchio e annacquando le chance di vittoria. Quanto al sito Imdb, segnala vagamente l’uscita americana per il dicembre 2011, senza però precisare una data, il che avvalorerebbe indirettamente l’ipotesi dello slittamento. Stiamo a vedere, la partita è ancora da giocare.
“Sorrentino is a true auteur”, ha detto intanto il boss Harvey Weinstein, e in rete si ironizza sulla riesumazione della parola auteur “che non si sentiva da almeno 15 anni”. In effetti mentre da noi il film di Sorrentino viene preso serissimamente, sulla blogosfera anglofona imperversano le battutacce e la più sguaiata goliardia, per via del fatto che loro finora hanno potuto vedere solo le foto del Sean Penn imbaldraccato e la
cosa suggerisce e alimenta i peggiori lazzi: “Siete proprio sicuri che sia un dramma e non una roba da ridere?”, “Ma chi è, il cugino di Marilyn Manson?”, “Hedwig (film su un travestito, ndr) incontra Munich di Spielberg”, “Dossier Odessa ma con Alice Cooper protagonista! A quando Justin Bieber vs. Eichmann?”. Imperversa soprattutto il gioco sull’a chi somiglia il povero Chyenne/Penn: “Sembra il figlio di Howard Stern e Edward mani di forbice”, “Susan Boyle che ha litigato col parrucchiere” (geniale: quella che preferisco, ndr), “David Bowie”, “Marc Bolan”, “No, è Robert Smith dei Cure” (la più gettonata). Ma forse ha ragione Luca Pacilio (critico degli Spietati) che su Fb ha pronunciato la sentenza definitiva: è il clone fatto e finito di Renato Zero (e allora, dico io, che Sorrentino fosse al tempo suo un sorcino?).
Però la grancassa italiana a favore del film ha già prodotto la bellezza di 300mila euro incassati da TMBTP ieri, venerdì 14 ottobre, primo giorno di programmazione sul patrio suolo, il che lascia ben sperare i produttori (tre: Indigo, Lucky Red e Medusa) sull’esito complessivo al nostro box office. Ma insomma, che film è? È davvero un grande film? Allora: va riconosciuto subito a Sorrentino il molto di buono che sa fare e ci fa vedere. Sa girare come pochi in Italia, anzi probabilmente come nessuno, manovrando la mdp con una fluidità e una facilità che lo mettono alla pari di tutti i virtuosi della ripresa usciti dalle migliori scuole di cinema internazionali. Carrellate vertiginose (come quella che attraversa inizialmente il quartiere di Dublino in cui risiede Cheyenne e arriva fino alla sua casa), piani sequenza, zoomate, e un montaggio da lasciare incantati, insomma una tecnica, una grammatica e sintassi cinematografiche che non hanno quasi riscontri in un cinema come quello italiano che oggi e da sempre privilegia la mise en scène, la composizione dell’inquadratura e di ciò che ci deve entrare, rispetto ai movimenti di macchina, spesso limitati all’elementarità della camera fissa e del campo/controcampo (con le dovute eccezioni naturalmente, ad esempio Antonioni, Rossellini e Bertolucci). Insomma, in un’Italia cinematografica che è soprattutto artista dell’immagine immobile e del tableau vivant, anche se spesso sublime, Sorrentino è un’eccezione felice. La confezione del suo film è assolutamente cosmopolita, non solo perché gira in inglese, non solo perché ha per le mani una superstar come Sean Penn, non solo perché ha uno stile e un linguaggio non periferici, non etnico-nazionali, ma perché non ha alcuna soggezione nel muoversi in location extraitaliane e a raccontare una storia rock con la naturalezza di chi con il rock è cresciuto, da ragazzo globale. Traffica con David Byrne e il repertorio dei Talking Heads (This Must Be The Place è un loro pezzo storico, e lo stesso David Byrne lo esegue live in una delle scene migliori) dando l’impressione di conoscerli davvero da sempre, mica dal giorno prima su YouTube. Ci lamentiamo sempre che il nostro cinema avrebbe bisogno di sprovincializzarsi e di una, cento, mille gite arbasiniane a Chiasso, bene, ecco finalmente un film italiano di un regista italiano che ci riesce. Oltre che virtuoso della macchina da presa e ottimo direttore di attori, Sorrentino sa anche scrivere dei gran bei dialoghi, di una scrittura non corriva, densa eppure agile e (quasi sempre) non pesante. TMBTP gronda belle battute, almeno un paio memorabili: “Perché non ho avuto figli? Una rockstar non dovrebbe mai averne, per non correre il rischio di trovarsi una figlia che fa la stilista pazza” (ogni riferimento a McCartney padre e figlia non è puramente casuale); “Avete notato? Oggi nessuno fa più un lavoro, tutti fanno qualcosa di artistico”. L’idea della rockstar ultracinquantenne ormai fuori scena da vent’anni che vive nel suo castellozzo in Irlanda arredato dal solito architetto amante del décor impeccabile e frigido (“Mi sai dire” – dice Cheyenne alla moglie – “perché l’architetto ha voluto mettere quella grande scritta CUISINE in cucina? Ma noi lo sappiamo già che è la cucina”) non è niente male. Soprattutto perché il rocker deprimente e depresso Cheyenne è conciato anche adesso che è in pensione come quando cantò con Mick Jagger (“No cara, è Mick Jagger che una volta ha cantato con me”, puntualizza lui con una fan che l’ha riconosciuto), tutto di nerovestito, capelli lunghi e tintissimi di nero che sparano da tutte le parti (e uno degli atti irriflessi di lui è liberarsi con una vigorosa soffiata della lunga ciocca che gli casca sulla faccia), di nero kajal gli occhi bistrati, e rossetto fiammeggiante sulle labbra. Quanto sia, nella messa a punto del personaggio, opera di Paolo Sorrentino e quanto dello stesso Penn non ci è dato sapere, pare comunque che l’attore ci abbia messo parecchio di suo. Il risultato, quando lo si vide in foto prima che uscisse il film, ci sembrò svonvolgente e anche repellente e imbarazzante. Ma quando te lo vedi sullo schermo, il povero Cheyenne, con quei passettini da geisha avvizzita e quel vocino (pare che in VO la voce sia ancora più fessa e svirilizzata di quanto non lo sia nel doppiaggio italiano), acquista la dignità di una persona, e di un personaggio vero, andando oltre la caricatura e l’effetto freak. Probabile anzi che il film sarà ricordato per lui, per il suo cupo e lunare protagonista, catatonico, malinconico, un pierrot cadaverico che del rock e del glam-rock ci mostra la faccia più devastata e patetica. Estremizzando, si può dire che il film è Cheyenne, e nient’altro. E qui si passa, dalla colonna con il segno più, alla colonna dei meno. Molte, moltissime cose non tornano e non convincono in TMBTP. La destrezza di Sorrentino diventa anche il suo limite. Più che un film, questo sembra una performance circense, l’esibizione di alta acrobazia di un virtuoso che vuole ricordarci a ogni inquadratura cosa è in grado di fare, che alza l’asticella ogni volta per poi poterci mostrare di poterla valicare. Non c’è pace per i nostri occhi in TMBTP, la mdp non sta mai ferma, i corpi di chi sta sullo schermo si agitano, tremano, simulano una immobilità (Cheyenne soprattutto) che è in realtà eterno movimento, nevrosi cinetica. La propensione, la vocazione di Sorrentino al grottesco, alla deformazione dei visi e della carne che ben conosciamo dai suoi film precedenti (e che aveva raggiunto un apice non oltrepassabile in Il divo), qui trova la complicità dello stesso Penn, e quel che ne esce è il personaggio Cheyenne sovraccarico di segni, ipervisivo, e un film pure quello intasato, strabordante, troppo ricco di immagini, di un barocchismo che esorcizza il vuoto e diventa indigeribile. I dialoghi, di parecchie spanne sopra la media italica, però franano pure quelli spesso nell’autocompiacimeno e virano verso il sentenzioso e l’arty, soprattutto nella seconda parte: quella diciamo così seria, quella in cui si affrontano nientemeno che l’Olocausto e la sua memoria. Ma a impedire a TMBTP di essere davvero un film grande è l’incapacità di costruire intorno a Cheyenne una storia degna di questo nome, qualcosa di coerente e dotato di senso. Funziona tutto abbastanza bene nella prima parte irlandese, quando la rockstar ci viene presentata nella sua bruta quotidianità, il palazzotto da parvenu gelidamente e impeccabilmente arredato in cui vive, la sua zombesca spesa al supermercato, la moglie che incredibilmente sta con un uomo così (o una pazza così) da 35 anni e lo ama davvero, e i due fanno davvero l’amore, e lei di mestiere fa il pompiere. Dettaglio questo che ha fatto scrivere parole di fuoco alla gran critica americana Stephanie Zacharek (e non ha tutti i torti: ma vi pare verosimile che la moglie di una rockstar che vive, e bene, di royalties debba andare a spegnere incendi?). Comunque Frances McDormand, somigliantissima a Emma Bonino ormai (nel caso di un biopic, tenere presente), è magistrale nella parte di questa strana moglie innamorata di un semitravestito e, sotto la maschera del cinismo, a lui assolutamente devota. Il ritratto di questa coppia eccentrica, ma a suo modo riuscita e perfetta, è tra le cose migliori del film, e le scene in cui loro due cincischiano e giocano a pelota nella piscina vuota (sempre rimasta vuota, a Cheyenne l’acqua non piace), e i loro battibecchi sulle azioni Tesco da vendere o meno, non si dimenticano. Qui la tendenza al bizzarro di Sorrentino riesce ancora a raccontarci qualcosa della vita e a illuminarne aspetti laterali, riesce ancora a dirci qualcosa che ci interessi e abbia un sentore di verità. Poi però, come hanno già detto e scritto in tanti, il film prende un’altra piega. Cheyenne va a New York dal padre che non vede da trent’anni (ci va in nave, avendo paura di volare) e ci arriva che è già morto. Scopriamo così che la famiglia di Cheyenne è di religione ebraica, che il padre, sopravvissuto ad Auschwitz, per tutta la vita aveva inseguito senza riuscire a trovarlo Aloise Lang, l’SS che nel campo fu il suo carnefice. Qui il film cambia di colpo, con la scelta di Cheyenne di mettersi lui a inseguire Lang, di portare a compimento la missione del padre. Incomincia la sua caccia, percorrendo l’America profonda, Michigan, New Mexico, e infine Utah, in un road movie tra nastri d’asfalto che si perdono all’orizzonte, motel nel nulla di lande desertiche, stazioni di servizio dimenticate da Dio e dagli uomini. Tutto molto déjà vu. Qui diventa fin troppo evidente come il film sia ormai diventato un incontro di narcisismi: quello di Sorrentino, che vuole girare dopo il successo di Il divo un film internazionale e togliersi lo sfizio di un road movie americano come altri guru consacrati del cinema europeo avevano già fatto (il Wim Wenders di Paris, Texas, il Michelangelo Antonioni di Zabriskie Point), e dimostrarci a ogni inquadratura quanto è bravo e ci sa fare, e quello di Sean Penn, che non vede l’ora di sfrenarsi in una prova mattatoriale ad alto tasso di gigioneria. Peccato che la storia non ci sia. Ci sono tutt’al più nella prima parte singoli momenti e dettagli, soprattutto nella messa a punto del personaggio di Cheyenne, che però non diventano mai una narrazione. E la seconda parte del film è incongrua rispetto alla prima, oltre che seguire piattamente il genere caccia-al-nazista senza un minimo di invenzione, al di là di qualche singola scena azzeccata. Sorrentino non va oltre l’intuizione e la costruzione del suo protagonista, e non si capisce come mai da un’idea così bella non abbia poi coerentemente costruito un film sul rock, sulla decrepitezza di quella che fu un tempo musica nuova, sulla parte oscura di chi si ostina, nello showbusiness e non solo, a non invecchiare mai. Invece c’è questo slittamento nell’Holocaust movie, che resta esteriore e immotivato. Si cerca di spiegare più volte nel film, a chi dubita che ci siano ancora in vita criminali nazisti da stanare, che sì, qualcuno ancora c’è, anche se ultranovantenne. Strana excusatio non petita, che fa venire il cattivo pensiero (che subito allontaniamo dalla nostra mente) che il copione Sorrentino l’abbia scritto molti anni fa e che l’abbia rispolverato e rinfrescato quando gli si è presentata l’occasione di lavorare con Sean Penn (i due, dice la piccola leggenda che si è ormai cristallizzata intorno al film, si conobbero a Cannes, dove Sorrentino presentava in concorso Il divo e Sean Penn presiedeva la giuria, e l’attore due volte premio Oscar, conquistato dal talento del regista, gli disse che gli sarebbe piaciuto girare un film con lui: nove mesi dopo Sorrentino gli mandò il copione). Forse una sua sotterranea coerenza il film ce l’ha, e vien fuori quando, in una scena che è meglio non svelare, scopriamo che Cheyenne ha anche un’altra faccia, e che il film è il lungo percorso per arrivare a questa faccia, e che insomma TMBTP potrebbe anche essere un tardivo racconto di formazione di un eterno ragazzo mai cresciuto che solo confrontandosi col padre, e la sua terribie storia, riesce finalmente a diventare grande. Ma se così fosse, il film si appiattirebbe e banalizzerebbe ulteriormente a lezioncina di psicologo da talk show (o da magazine cartaceo, scegliete voi il peggio). Bisogna anche aggiungere che Sorrentino scherza con il fuoco in almeno un paio di occasioni, non si capisce se per incoscienza o eccesso di sicurezza: a) quando lascia intendere, nella scena finale, che l’incerta identità sessuale di Cheyenne sarebbe solo la fissazione a uno stadio arretrato di una regolare evoluzione psicologica (“roba da anni Cinquanta”, ha commentato non senza ragione qualcuno su un qualche blog americano); b) quando fa dire al nazista finalmente scovato che non solo agli internati di Auschwitz era stata sottratta per sempre la giovinezza (come scrive nei suoi appunti il padre di Cheyenne), ma anche a loro che stavano dall’altra parte del reticolato, suggerendo così un inquietante e discutibile parallelismo carnefice-vittima e una pari sofferenza.
Son cose delicate, e in casi del genere è meglio prudentemente astenersi, omettere, non dire. Qui il film casca, e alle prese con i Grandi Discorsi si brucia e autodistrugge. Il meglio è quando se ne sta schiscio sul suo protagonista, anche se il rischio della macchietta napoletano (Sorrentino è di Napoli) è sempre dietro l’angolo, e si accontenta di minime ma memorabili scene, tipo quando Cheyenne, davanti a un gruppo di ragazze che si chiedono come trovare un rossetto che tenga e non sbavi, dà il suo consiglio: ” Stendete prima sulle labbra un velo di cipria, il rossetto terrà fino a sera”. Però, dopo Il divo e questo sfrenato TMBTP, ci piacerebbe tanto che il talentuoso Sorrentino lasciasse perdere le sue adorate gallerie di mostri e freak, le deformazioni iper espressioniste, la passione smodata per il repellente. Che buttasse la trousse (si dice così?) dei trucchi, anche se proprio Il divo si è portato a casa l’Oscar per il migliore make-up (cosa che pochi ricordano). Provasse a farne a meno, del make-up, e girasse un film con facce al naturale. Tanto, bravo com’è, se la caverebbe benone lo stesso.
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