American Honey, un film di Andrea Arnold. Con Shia LaBeouf, Sasha Lane, McCaul Lombardi, Riley Kough. Concorso.
Star ha solo diciott’anni e una vita disgraziata. Quando passa una strana compagnia che gira l’America a vender riviste di carta (missione quasi impossibile!) si aggrega e scappa. Si innamorerà dura di Jake, il più abile dei venditori nonché amante della boss. Dura quasi tre ore quasto vagabondare frenetico, sgargiante, intossicato negli Stati più profondi e lontani. Andrea Arnold usa magnificamente la macchina da presa, solo che a questo film, a tratti bellissimo, manca un vero centro narrativo. Voto 7
Mi piacciono le registe che non cavalcano la retorica del cinema al femminile, del cinema della differenza, dello specifico femminile dietro la macchina da presa, che non hanno cedimenti sentimentalistici e mimetizzano il loro sguardo di donne sotto un approccio non di genere. Kathryn Bigelow. O Andrea Arnold. Che è riuscita a cavare qualcosa si meravigliosamente barbaro e fiammeggiante da un libro sovraccaricato di residui romanticistici come Cime tempestose. Per non parlare del suo tostissimo Fish Tank, storia disgraziata a tre in una desolata landa inglese. Dunque mi aspettavo tanto, ma tanto davvero, da questo suo ritorno con American Honey, anche se le quasi tre ore non erano di gran conforto. Son rimasto abbastanza deluso, ecco. Certo, American Honey è cosa di rispetto con momenti magnifici, e forse la prova registica di massimo virtuosismo di Andrea Arnold che con la sua macchina a mano/a spalla sta dietro ai personaggi, al paesagggio americano, alle facce, ai corpi restituendoci il reale com in una improvvisazione jazz. In un tournage immagino faticosissimo e di molte settimane, se non mesi. Salti repentini, movimenti all’apparenza incongrui, squilibri, come di uno stalker che qualche volta perde di vista il suo oggetto e lo deve faticosamente recuperare. Ma anche panoramiche amplissime a catturare l’America grande della provincia, quegli altrove rispetto a New Yor, rispetto a Los Angeles, rispetto a tutto. Già, com’è brava, e che coraggio nell’affrontare questo viaggio attraverso gli Stati filmando la storia, le storie di una bizzarra compagnia di giro, tutta gente giovanissima al servizio di una ferrea capessa di nome Krystal con la missione davvero impossibile di vendere abbonamenti di riviste perlopiù inutili (ma chi mai oggi legge ancora riviste di carta, e quanti ci si abbonano? questo per rendere l’idea della difficoltà della sfida che quotidianamente deve fronteggiare la crew di American Honey). Siamo, come sempre in Andrea Arnold, nell’umanità più derelitta. Stavolta quella white trash che è l’America più svantaggiata e incazzata anche. La compagnia viaggiante del film si compone tutta di ventenni e anche meno, pescati in ogni dove degli Stati Uniti, con innesti perfino da Panama. Sono una tribù con un capo, Krystal, con i loro riti di iniziazione e passaggio, con le gerarchie rigidissime pur nell’apparente fluidità e libertà del gruppo, con le cerimonie per cementare la compattezza e aumentare l’efficienza. Tutto come già visto molte volte nelle analisi e nelle indagini tra le pieghe dell’american dream, e penso a cose come American Buffalo. Fare il venditore è un’arte, è seduzione, anche inganno, anche affabulazione. Lo sappiamo già. La differenza è che questo gruppo è un campione della nuova America, dei millennials però a basso o nullo reddito mica gli hipster fighetti, e dunque culto del corpo, competizione ancora più spinta e selvaggia di quella già inscritta nel genoma americano, il rap come musica di riferimento e ogni possibile altra imagerie della pop culture, come i tatuaggi. In questo mondo Andrea Arnold si muove benissimo, lei che ha sempre destrutturato ogni possibile glamour distruggendo e inselvatichendo ogni levigatezza. Cinema del reale, il suo, nel senso del rifiuto di ogni abbellimento e di ogni retorica, e teso più a cogliere i segni dell’imperfezione, del degrado, della consunzione, dell’usura. Tutto è sporco, lercio in questo film, tranne le case medioborghesi che i nostri vanno a visitare per vendere le loro riviste. Con la cinepresa che riprende spesso insetti, formiche, vermi, coleotteri, farfalle ma di quelle tristi, la vita minima e rasoterra, forse a suggerirci una continuità e contiguità tra noi (umani) e loro (insetti). Niente da dire, son quasi tre ore di cinema magnificamente girato. Le perplessità sono altre. Qual è l’ubi consistam di questo film? Cosa mai ci viene a dire American Honey al di là delle sue rutilanti sequenze quasi documentaristiche, al di là della sua spossante e talvolta tetra frenesia di vivere? No, non è uno di quei road-movie anni Sessanta-Settanta, che so Alice non abita più qui o Easy Rider o Sugarland Express, che volevano rovistare tra le retrovie dell’America e dirci quanto potesse essere fallace il sogno americano, e quanta violenza e sconfitta e disordine potesse nascondere. Qui non c’è nessuna ansia di denuncia, solo un’operazione di mimesi su una parte d”America che sta parecchio in basso nella scala sociale. Non è nemmeno un film sul vendere, e sul successo e l’ossessione tutta Usa di raggiungerlo. Tutt’al più American Honey ci mostra dal di dentro una comunità per quanto non legata da ideali ma solo dallo stesso obiettivo, quello di fare i soldi, con i suoi leader, i gregari, i meccanismi di manipolazione e coercizione. E però, alla fin fine, questo film è una storia d’amore. Quella tra l’ultima arruolata Star, una diciottenne che scappa da un uomo che non le può dare niente, per seguire quella carovana, come un tempo si scappava con le giostre o il circo di passaggio. E si aggrega anche perché attratta, da subito, da Jake (Shia LaBeouf dopo la cura Nymphomaniac), il più bravo e pazzo dei venditori, nonché amante in carica della boss Krystal. Le scopate belle e furiose tra Star e Jake, le reticenze di lui, i sogni anche di massima ingenuità di lei, il lasciarsi, il riprendersi, il rilasciarsi sono l’asse del film, e il tema narrativo cui Arnold si dedica di più. Ma la storia tra i due non è così speciale, non ce la fa a tenere in piedi l’intera struttura. E il finale è francamente troppo sentimentale, la tartaruga, la rinascita per acqua ecc., qualcosa che da Andrea Arnold non t’aspetti. Un bellissimo film che non trova il suo focus, e che con qualche taglio deciso molto avrebbe guadagnato.
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