(Cannes 2016) recensione: NERUDA, un film di Pablo Larraín. E la vita del poeta cileno diventa un poliziesco

Schermata 2016-06-12 alle 16.09.04Neruda - Luis Gnecco (Pablo Neruda)Neruda, un film di Pablo Larraín. Con Luis Gnecco, Gale Garcia Bernal, Mercedes Morán. Presentato a Cannes 2016 – Quinzaine des Réalisateurs. In programma il 17 e 20 giugno a Milano a Le vie del cinema – Cannes e dintorni (qui il calendario).
Neruda - Gael Garcia Bernal (Oscar Peluchonneau)Il grande Pablo Larraín ci spiazza ancora una volta distruggendo ogni regola e convenzione del genere biografico. Raccontandoci il poeta cileno Pablo Neruda non come un padre della patria, un totem inscalfibile, ma come un narciso e un gaudente dalle molte debolezze private. E trasformandolo nel protagonista di uno strano noir esistenziale con lui uomo in fuga inseguito da un poliziotto ossessionato dall’ansia di catturarlo. Non il migliore Larraín, eppure film coraggiosissimo, anomalo, che sovverte e irride i modi del biopic. Voto 7 e mezzo
Neruda - Pablo Larrain (director)Il mitologico  – e più famoso che letto – poeta cileno raccontato ma non biografato dal più grande del cinema cileno di questi anni, Pablo Larraín. Ci si aspettava a Cannes, dove Neruda è stato proiettato nell’esilio della Quinzaine (il festival continua a non amare chissà perché il regista cileno: dopo aver rifiutato un tre anni fa il suo bellissimo No stavolta ha fatto lo stesso) un biopic per quanto d’autore, invece Larraín ancora una volta spariglia le carte, ripudia deciso i codici del genere ti-racconta-una vita-famosa e ci spiazza e sorprende continuando a esplorare nuove forme di cinema, a provare inventare sperimentare come pochi oggi (Refn, pur se tutt’altro versante, è un altro che non ha paura di rimettersi in gioco rischiando l’osso del collo, vedi The Neon Demon). Mai un film uguale all’altro, come provasse orrore ad autoreplicarsi e ripetere il già fatto. A guardarlo nel suo insieme il cinema dell’enorme Larraín è un caidoscopio intronante e disorientante per chi voglia cercarvi una coerenza di forma e strutture narrative e di stili, e se un segno di continuità vogliamo rintracciare lo troviamo nella sua ossessione a esplorare e ricostruire pezzi e monconi della storia cilena del secondo Novecento e dei primi anni Duemila, nel suo radicamento negli umori patrii anche quando, soprattutto quando, lutulenti e sgradevoli. Nella sua ben nota trilogia chiamiamola così Allende-Pinochet – perché quello è l’arco temporale in cui si situano le narrazioni – intendo Tony ManeroPost Mortem e Noaffronta la storia da punti d’osservazione laterali e periferici mostrandone il riflesso nelle vittime e nei carnefici, nei non-eroi della qualunquità, nei non-protagonisti. Stavolta in Neruda il suo Cile lo racconta invece attraverso uno dei suoi nomi più conosciuti, uno dei suoi eroi, il laureato poeta di fede e di pratica comunista, cileno di lungo esilio europeo e ottime relazioni internazionali con l’intellettualità dell’engagement di colore rosso di quel tempo, Pablo Picasso, Jean-Paul Sartre, Paul Eluard e gli altri della Parigi rive gauche. (Neruda, val la pena ricordarlo, era anche, interpretato da Philippe Noiret, al centro di Il postino con Massimo Troisi.) Ma Larraín è Larraín, per fortuna. Uno che non cade nelle trappole dell’ideologismo e nello sventolio di bandiere, preferendo il racconto delle singolarità individuali, del loro intersecarsi e intrecciarsi a rete, delle ambiguità e delle ombre alla facile narazione in piena luce del Bene e Male contrapposti, rivoluzionari di qua e reazionari di là, popolo vs. élite. Così qui si inventa per raccontarci di Neruda, intellettuale sinistrissimo nel Cile del 1948 in preda a un governo autoritario ovviamente anticomunista, filoamericano in puro stile guerra fredda – quello del presidente Gabriel González Videla – una specie di noir in cui fatti e personaggi si fictionalizzano e si allontanano da ogni forma di cinema di fedele ricostruzione storica e biografica. Tentativo assai temerario che produce un qualcosa di ibrido e inaspettato, non apparentabile a precedenti cinematografici, segno della grandezza d’autore e originalità di Larrain. E fa niente se stavolta il regista cileno non riesce a scuoterci come gli era riuscito con il formidabile El Club o con Post Mortem, il film resta bello e importante nonostante che, soprattutto nella parte finale, si aggrovigli parecchio con esiti confusi ed eccessi simil-letterari non sempre all’altezza delle intenzioni. Come uno sperimentatore in laboratorio, Larraín usa glacialmente plurimi generi, dal film storico a quello militante alla detective story al crime fondendoli alla fine tutti nel poliziesco, per evitare l’ovvietà e i rischi del classico biopic, soprattutto quello della mitizzazione-celebrazione o al contrario della demitizizzazione-demistificazione. Neruda diventa una caccia in cui il protagonista è la preda, e però talmente astuta e abile da confondere non solo le proprie tracce ma la stessa mente del cacciatore, condizionandolo, quasi plagiandolo con il suo fascino, a distanza. Senatore da molto tempo, Neruda si pronuncia in parlamento con uno storico discorso dalla parte dei minatori allora, siamo nel 1948, in sciopero e bersaglio degli attacchi del presidente Videla. La situazione precipita presto, il partito comunista viene messo fuorilegge, i suoi militanti sbattuti in galera, Neruda è costretto a scappare insieme alla seconda moglie Delia del Carril, protetto dalle strutture clandestine del partito. Che Neruda è? Non solo l’eroe delle battaglie con gli oppressi, ma anche un uomo dall’enorme ego e dagli enormi narcisismi e appetiti, anche sessuali, uno cui l’impegno sociale non impedisce il gusto, e la pratica, della bella vita. Eleganti se non sontuose case, e soprattutto donne e donne. Il Neruda secondo Larraín non ha niente del santino, è un puttaniere frequentatore compulsivo dei migliori e anche peggiori bordelli di Santiago, beniamino delle prostitute più costose. Anche un filo trombone, un narciso voglioso di declamare i propri versi di fronte a ogni possibile uditorio, assai convinto del proprio genio. Un innamorato di sé e della vita, assai lontano dallo stereotipo del comunista penitenziale tutto militanza e niente godimento (incarnato invece dal compagno di base che gli fa da guardia del corpo e anche da controllore per conto del partito, disgustato dai suoi costumi debosciati e di sciupio vistoso). Neruda è un borghese dai molti piaceri convinto che il comunismo non sia l’eguaglianza nella povertà ma nel lusso. Non bastasse questo approccio assai poco convenzionale a un monumento patrio, Larraín lo trasforma nel character di un sempre più serrato poliziesco, di un film quasi di genere, minando ulteriormente il suo mito polveroso di padre della patria e totem delle lettere nazionali e internazionali. Questo Neruda, più che il sommo poeta conclamato, è un uomo di molti egoismi e parecchie doppiezze private. Che vorrebbe sì restare in Cile durante la repressione ma che il partito induce alla fuga, e che inizialmente tenta di espatriare senza riuscirci in Argentina. Sarà allora costretto ad andare verso Sud, sempre più a Sud (la parte selvaggia e primitiva del Cile, dove risiede l’inconscio rude della nazione, la sua anima più popolare e randagia) con la moglie nascondendosi in case povere sotto falsa identità. A seguirlo, a cercare di catturarlo, un ispettore di polizia di nome Óscar Peluchonneau, devoto servitore dello stato fino alla rinuncia di ogni autonomia di giudizio, di ogni indipendenza intellettuale, ma uomo coerente e tutto d’un pezzo, ossessionato da quel poeta in fuga che ai suoi occhi incarna un Cile altro-da-sé, un Cile insieme aristocratico e plebeo e fuori regola che non è il suo. Nel character di Peluchonneau, un molto bravo, sottile e affilato Gael Garcia Bernal tornato a lavorare con lui dopo No, Larraín ritrova un qualcosa del clima torbido e ambiguo di El Club. Stabilendo tra preda e cacciatore una relazione sempre più contorta. L’ispettore, ormai posseduto dall’ansia di catturare Neruda, rischia di perdere il senno, come in una replica di Achab sulle tracce di Moby Dick. Mentre Neruda sembra giocare a distanza col suo persecutore e inseguitore, in una partita in cui il gatto e il topo si scambiano di continuo i ruoli. Siamo dalle parti delle narrazioni sul doppelgänger, con le due parti che man mano si configurano come i lati opposti ma complementari di una stesa ragione, o di una stessa follia. Larraín esagera parecchio, soprattutto nell’ultima parte nelle distese di neve della Patragonia più inclemente, con simili suggestioni, sacrificando verosimiglianza e credibilità, e sciogliendo via via il noir, il poliziesco, in una parabola metafisica in cui i personaggi, soprattutto l’ispettore, perdono sangue e carne per farsi simboli e astrazioni. Mentre i paesaggi grandiosi ci riportano a certi western e perfino al recente The Revenant di Iñarritu. Un approdo che nessuno, credo, si aspettasse prima di vedersi questo film così anomalo. Luis Gnecco, già visto in No, è un Neruda debordante e riempiscena, non so quanto fedele all’originale ma di sicuro potente e non convenzionale. Ma il film lo ruba Bernal, malinconico, tormentato poliziotto condannato alla sconfitta, e alla pazzia, dalla propria rigida personalità di uomo d’ordine e di rispetto. Un hombre vertical purtroppo per lui al servizio di una pessima causa.

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