I tempi felici verranno presto, un film di Alessandro Comodin. Con Sabrina Seyvecou, Erikas Sizonovas, Luca Bernardi. Presentato fuori concorso a Cannes 2016 a La semaine de la critique e poi a Milano e Roma nella rassegna Cannes e dintorni.
Da un regista friulano trapiantato in Francia è arrivato il film italiano più interessante, arrischiato e progressivo tra quelli visti a Cannes nelle varie sezioni e rassegne. Un film non perfetto, ma che anticipa qualcosa del cinema futuro con la sua mescolanza di neorealismo e fantastico, con il suo raccontare sogni incubi e allucinazioni nel linguaggio spoglio e immediatista del cinema-verità. Il reale si fa visione, e viceversa. Da vedere quando uscirà nei nostri cinema. Voto 8+

Alessandro Comodin
È questo il miglior film italiano tra i non pochi presentati lo scorso maggio a Cannes nelle varie sezioni e rassegne collaterali. Rifacciamo la conta: niente cose nostre nella Compétition, e però Pericle il nero di Stefano Mordini a Un certain regard e, tra le séances speciales del festival, il docu abbastanza silenziato dalla stampa international L’ultima spiaggia di Davide Del Degan e Thanos Anastopoulos (fosse durato un po’ meno qualcuno in più l’avrebbe visto, e invece). Più un paio di corti, tra cui il molto, molto interessante La santa che dorme di Laura Samani (mi sa che ne risentiremo parlare). Fuoruscendo dal palais e andando alla Quinzaine, ecco la bellezza di tre titoli italiani: Fai bei sogni di Marco Bellocchio, La pazza gioia di Paolo Virzì e l’a mio parere al di sotto delle attese Fiore di Claudio Giovannesi. Nella sezione più edgy e purista, e anche la più chic, La semaine de la critique, ecco I tempi felici verranno presto di Alessandro Comodin, proiettato fuori concorso. Il titolo, così soappistico e bacio-peruginico, è la cosa peggiore del film: per fortuna quel che ci sta dietro, e dentro, è cosa molto buona. Opera di un regista di trent’anni e qualcosa (leva 1982) nato vicino a Udine ma trasferitosi poi a Bruxelles per frequentare una scuola di cinema e oggi mi pare residente a Parigi (se sbaglio qualcuno mi corregga, grazie). Cineasta italiano sì, ma di quella diaspora di nostri nuovi autori di cui fan parte altri suoi coetanei come Adriano Valerio e Matteo Zoppis, e più conosciuto e rispettato in Francia che da noi, dove quasi nessuno s’è filato il suo parecchio interessante anche se discutibile esordio L’estate di Giacomo (vincitore a sorpresa a Locarno 2012 della sezione Cineasti del presente: la mia recensione di allora), assai apprezzato invece dalla critica parigina. Comodin si situa in quel territorio di esplorazione che fa impazzire la critica francese più radicale e punk-chic: mica per niente lui è stato il solo italiano inserito da Les Inrocks in una galleria di ritrattoni pre-Cannes. Dove il suo I tempi felici verranno presto è risultato tra i sensori più attendibili di quel che sta succedendo e che sta per succedere in molto cinema, almeno in molto cinema d’autore di nuova o quasi nuova generazione. Un sismografo dei movimenti, per quanto sotterranei, in corso. Un film di visioni cinematografiche pure e senza comnpromessi col gusto mainstream. Film che crede ancora nel cinema e nel suo potere narrativo e evocativo, nella sua insostituibilità e necessità, nella sua capacità di tracciare un domani, un futuro, di indicare traiettorie di rappresentazione e immaginazione inedite. Film povero nel senso migliore, come lo erano quelli di Rossellini per capirci, che mira alla trasparenza dello sguardo e alla semplicità della messinscena, che rifugge da ogni orpello, affettazione e smanceria e punta nobilmente all’essenziale. Cinema di antiche genealogie che si ibrida con molti dei modi di oggi, a partire dall’uso (e anche abuso) della steadycam, camera a mano o a spalla che sia ma sempre mobilissima fino alla frenesia, vero feticcio di tanta giovane autorialità e ormai, almeno dai Dardenne in avanti, marchio di riconoscibilità di chi facendo cinema vuole azzerare ogni artificio per rincorrere il timbro della realtà o presunta tale (illusioni e inganni e distorsioni ottiche al riguardo abbondano). Con una pratica che si rifà al cinema del reale, al cinéma vérité, al cinema-documento anche quando si tratta di raccontare come in questo caso un reale che trasmuta nel fantastico, e viceversa. Coraggiosamente, Comodin va molto al si là del suo già notevole esordio, che visto retrospettivamente, dopo I tempi felici verranno presto, appare come una specie di saggio, di esercizio, di training per questa prova maggiore. Se là Comodin ci turbava con una realtà ambigua, quella del suo protagonista sordastro che dava origine a un racconto forse fittizio forse no, qui si scatena confezionando un film-scommessa che, pur nei modi apparenti della fedeltà documentaria, diventa una storia-labirinto con con ampi tratti ed escursioni e deviazioni nel fantastico. Non tutto funziona, anzi parecchie cose per niente, alcuni passaggi sono di massima oscurità e impenetrabilità, e l’ormai consueta riluttanza di tanti cineasti a spiegare e strutturare narrazioni decifrabili, a omettere e alludere, trova in Alessandro Comodin un altro suo rappresentante, e dei più decisi. Le ambizioni sono altissime, non tutte realizzate, ma va bene così. I tempi felici che verranno presto è felicemente imperfetto, mostrando e mai nascondendo i suoi pezzi e monconi non così ben suturati e armonizzati, fino a costringerci a uscire dalla nostra pigrizia di spettatori, a interrogarci, ad arrischiare un modo diverso di guardare. Un film che ti obbliga a cambiare il punto di vista, a tentare la scommessa di una visione altra, e scusate se è poco, soprattutto per un cinema come quello italiano poco propenso alla scommessa (sempre che in questo caso si possa parlare di cinema italiano, perché questo Comodin è coproduzione multinazionale dove la Francia ha un peso grande). Abbiamo un cinema che si sta svegliando dopo anni, decenni di coma profonda e immobilismo, ma stentiamo ancora a rischiare nuovi stili e linguaggi. Bene, Comodin è uno che non ha paura, e che si situa al livello delle cose più audaci e progressive che oggi si possano vedere in quella finestra sul futuro che sono i festival. Difficile anche solo descrivere in sintesi veloce cosa ci mostri in I tempi felici verranno presto, strutturato in capitoli che si srotolano senza apparente linearità, in una struttura circolare che alla fine sembra (sembra) riportarci al punto di partenza, o almeno all’antefatto di quanto abbiamo visto all’inizio. Solo che nel dipanarsi della storia si hanno sbalzi spaziotemporali, sicché il finale tenderà sì a concidere con l’inizio ma collocandosi in un’altra era, come se nel frattempo fosse avvenuto uno slittamento, o almeno così a me è sembrato di capire. Perché qui, ripeto, la pratica dell’implicito, dell’alluso, del non-spiegare-mai è portata al parossismo lasciandoci sequenze che tocca a noi connettere faticosamente. Si parte con due fuggitivi probabilmente da un carcere, forse trattasi di prigionieri di guerra (forse), che attraversano concitati un bosco cercando di allontanarsi il più possibile dai loro inseguitori. Quasi sempre inquadrati di schiena e di nuca, esattamente come nell’interminabile piano sequenza con cui Comodin accompagnava i suoi due protagonisti nel precedente L’estate di Giacomo. Solo che stavolta i tagli son più frequenti e si lavora di più sul montaggio. Naturalmente tutto girato con la mitologica steadycam tra sussulti e strattoni e capogiri indotti nello spettatore. E però Comodin nella concitazione riesce a consegnarci un’atmosfera sospesa, di minaccia anogettuale, astratta. Finché i fuggitivi verranno avvistati e fermati dai loro inseguitori-persecutori, e si sentiranno spari, e si vedranno corpi che cadono. Questo l’antefatto di episodi e personaggi ancora più enigmatici che incontreremo in seguito, in una valle montana piemontese dove si racconta di una ragazza profondamente malata venuta dalla Francia in cerca di una miracolosa guarigione, e attratta dal bosco e dalle presenze che la abitano, a partire dai lupi, bosco nel quale un giorno si perderà. E da qui il fantastico man mano conquista e annette a sé il film. La ragazza scopre una fenditura, una grotta nella foresta e, percorrendola, finirà col ritrovarsi in un mondo a parte, in un tragitto che ricorda quello della bambina di La città incantata di Hayo Miyazaki. Ci sono lupi in quell’altra parte di valle, e forse qualche umano appartiene segretamente alla loro specie, in una trasmutazione genetica non così lontana da quella di Il bacio della pantera di Jacques Tourneur (ampiamente citato anche da Refn nel suo ultimo The Neon Demon). Un giovane uomo si inoltrerà anche lui in quel mondo altro, e succederanno cose strane e transizioni da una specie all’altra, e aggressioni, e fatti di sangue. Sangue animale e sangue umano. La foresta, luogo in cui tutto può succedere come nel Sogno di una notte di mezza estate o come nei film di Apichatpong Weeresathekul, da Tropical Malady a Cemetery of Splendour, con le loro creature mutanti e morti forse mai morti che ritornano tra i vivi e se li portano via. Il bello è che Comodin si addentra in questa dimensione di realtà e oltre-realtà cangianti e fungibili senza minimanente aderire ai cliché e alle ovvietà del cinema fantastico, anche quello più alto e ambizioso come Il racconto dei racconti di Matteo Garrone. Il regista si tiene rasoterra, strettissimo al suo consueto approccio documentaristico, arrivando a farci raccontare la storia della ragazza e dei lupi dagli abitanti di un borgo montano che conservano tutta l’immediatezza e anche la loro goffaggine di non attori. Senza che ce ne rendiamo conto Comodin ci trasporta in una di quella favole profondo-montane e profondo-valligiane di stregonerie e magie che si raccontavano nelle notti d’inverno, e lo fa con il rigore del cinema più ascetico, sobrio, austero e del documento etnografico. Ci si ritrova alla fine con molte domande senza risposta, con l’enigmatica, lunga sequenza del ragazzo in prigione che potrebbe preludere alla fuga dell’inizio, o forse no. La lezione del film è che il massimo del realismo e del neorealismo, e la massima economia dei mezzi impiegati, possono benissimo rovesciarsi nel loro contrario, spalancando una porta sul sogno, l’incubo, la visione, l’allucinazione, il mito, la favola. Il limite sta nell’eccessiva concettualità dell’operazione, con una storia sempre prigioniera di un’architettura narrativa ferrea, senza aperture né vie di fuga pur nella sua ostentata vaghezza. Ma è il prezzo che si deve pagare per questo film-odissea che ci porta oltrre i confini del cinema solito, anche quello alto-autoriale. E onore a Comodin, che a rischio di sfracellarsi osa uno dei progetti cinematografici più azzardati degli ultimi tempi. Sperando che I giorni felici verranno venga distribuito nelle sale italian e non finisca ingoiato nel solito limbo.
Nota: scrivendo di I tempi felici verranno presto mi è tornato in mente il pezzo Falso movimento che Vieri Razzini ha recentemente postato su Teodorafilm.com dove, con acume e profonda conoscenza del linguaggio cinematografico, analizza come negli ultini decenni le regole della sintassi filmica siano state ampiamente sovvertite e infrante, e dove si stigmatizzano certi vizi e vezzi neoautoriali. Come l’abuso di primi piani e le ormai dilaganti riprese di spalle: “le nuche in marcia, nuche deambulanti, nuche che camminano molto lungamente e più o meno lentamente percorrendo eterni corridoi o stradine, in silenzio, seguite con quell’attrezzo fin troppo comodo che è la steady-cam o anche con una semplice macchina a mano. Le nuche. Tasso di inespressività, mille. Tasso di noia, mille”. Ecco, pure in questo Comodin e nel precedente L’estate di Giacomo le nuche che camminano sono tante e esagerate, sulla scia peraltro di esempi illustri come il Gus Van Sant di Elephant o i Dardenne. Ma il nuovo cinema è anche questo, lontano anni luce dalla classicità e dall’ordine di tanti film del passato, e credo sia necessario farci i conti.
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