
Un juif pour l’exemple
A mezzogiorno di oggi 3 agosto prima proiezione stampa con un film fuori concorso, una produzione svizzera, com’è giusto che sia, perché ogni festival è anche la vetrina del proprio cinema nazionale: succede a Cannes con l’esorbitante presenza francese, succede a Venezia con invasione nostra. Titolo: Un juif pour l’exemple, con un Bruno Ganz ormai attore totemico della cinematografia centroeuropea e vicine diramazioni. Un film che si annuncia nobilmente e politicamente corretto, niente di più, in cui m’è parso di capire dalla sinossi si parlerà della condizione degli ebrei nella Svizzera enclave libera ma precaria nell’Europa del 1942 in piena guerra. Poi alla 13,30 via con il press screening del primo film di Piazza Grande: il pubblico lo vedrà stasera nella location della piazza, che è uno spettacolo già di suo. The Girl With All The Gifts tratta di vampiri o zombie, non ricordo bene, anche se pare tratto da un famoso bestseller, che non ho letto e non ho voglia di leggere. Con dentro Gemma Aterton e Glenn Close. La prima ci sarà – poi andrà a Venezia a fare la giurata – la seconda no. Alle 15,30, neanche il tempo di bersi un caffè, sempre al Kursaal, luogo dedicato alle anteprime per giornalisti, finalmente il primo film del concorso, il bulgaro Slava (Glory), del duo Kristina Grozeva e Petar Valhanov, gli autori per capirci del bellissimo The Lesson visto l’anno scorso e finito anche in finale del premio Lux. Da cui mi aspetto qualcosa, anzi parecchio. Grozeva è una delle otto registe del concorso, il che ha deliziato chi ancora crede nell’esistenza di un cinema al femminile, di un cinema della differenza e via retoricizzando e banalizzando. Quando conta solo il buon cinema, che sia maschile, femminile, transgender o quello che vi pare. La presenza massiccia delle donne registe non garantisce niente, è solo un dato statistico, tutt’al più è un indizio che anche in questo campo le donne stanno conquistando posizioni. La mia giornata prevederebbe almeno altri tre film, compreso il da me molto atteso I Had Nowhere to Go di Douglas Gordon, artista visuale che stavolta s’è messo a intervistare e raccontare la mirabolante vita di Jonas Mekas, uno dei padri-padrini del New American Cinema primi Sessanta, lituano scappato da ragazzino dalla patria sua e riparato col fratello in America, cineasta eccentrico e intriso di visioni anche intossicate, e gay quando ancora non ci si sposava col fidanzatino coi fiori d’arancio in mano. Ora è ultranovantenne, e speriamo che il film restituisca almeno un pezzo di una vita così vissuta. Del resto non sto a dirvi granché, lo si scoprirà insieme strada facendo: qua si va avanti fino al giorno 13 quando in Piazza Grande, luogo simbolico del Locarno Festival, verranno consegnati i vari premi, a partire dal pardo d’oro. Giuria presieduta dal gran messicano bunueliano Arturo Ripstein, mentre c’è Dario Argento, ormai diventato un mito per tutti i ragazzi che frequentano tutti i festival, a capo di quella che premierà il migliore di Cineasti del presente, la sezione seconda dove trovi il cinema più arrischiato Ma, volendo, si può anche dare un’occhiata a Open Doors, la sezione che va a dissodare ed esplorare nuove aree geografiche del cinema, a fondare una nuova geopolitica, quest’anno dedicata a Nepal, Myanmar, Bangla-desh e altro. Si parla benissimo di un film nepalese, ma mica detto che si riesca a incastrarlo nella spaventosa quantità di proiezioni che il festival, come ogni festival, ci riversa addosso tutti i giorni. Del conorso si attendono soprattutto Hermia & Helena dell’argentino newyorkizzato Matias Piñeiro, l’egiziano Books, Meadows and Lovely Faces di Youry Nasrallah e il portoghese O Ornitologo del piccolo maestro Joao Pedro Rodriguez, se ho ben capito una rivisitazione-contemporaneizzazione di vita e opere di Sant’Antonio da Padova (venuto dal Portogallo per l’appunto) con parecchie deviazioni gay che potrebbero far discutere la stampa locale. Dai restanti 16 titoli del concorso potrebbe uscire la rivelazione, e non resta che aspettare, perché i film li scopri solo vedendoli. Quanto a Piazza Grande, non così tanti i titoli che possono coinvolgere un pubblico larghissimo, pubblico composto perlopiù da tedeschi e svizzerotedeschi, spettatori affezionati e appassionati, e anche resistenti a piogge improvvise e altro, e però non così disponibile a elaborare e metabolizzare troppi audacie filmiche. Jason Bourne, presentato qui in prima europea, piacerà di sicuro. Torna Matt Damon dopo l’infelice parentesi con Jeremy Renner, e si torna ai livelli della trilogia fondativa. Farà scorrere calde lacrime al molto borghese pubblico di Piazza Grande il molto proletario film di Ken Loach già palma d’oro a Cannes, I, Daniel Blake, un successo garantito. Di Alejandro Jodorowsky, che verrà a ritirare un premio alla carriera, si vedrà il recente Poesia sin fin (l’ho perso a Cannes alla Quinzaine, spero di recuperarlo qui). Chiusura di Piazza Grande con una bollywoodata, un peplum-wuxia però in versione hindi Mohenjo Daro di Ashutosh Gowariker, a conferma della lenta ma inesorabile avanzata del cinema di Bombay/Mumbay in Occidente (vedi il buon successo recente di Sultan). Nugolo di premiati, con preferenza per gente con parecchia esperienza alle spalle. Qualche volta tanta davvero. Stefania Sandrelli, Roger Corman, Bill Pullman, Jane Birkin, Mario Adorf (un mito). E poi Valeria Bruni Tedeschi che viene a presentare un suo docu su signore di quarta età assai vitali e pazzerelle. E però la mia sezione preferita di questo Locarno resta la retrospettiva dedicata quest’anno al cinema tedesco dei tardi anni quaranta, dei cinquanta e dei primi sessanta, stagione dimenticata e rimossa. La narrazione messa a punto dal Critico Unico Internazionale l’ha bollato come cinema compromesso con l’industria e asservito al potere politico adenaueriano, piattamente schiacciato sul boom economico tedesco, cinema mai di contropotere, mai critico, linguisticamente e espressivamente arretrato e ingessato. Quella vulgata vuole che solo negli anni Sessanta, con la nascita del Nuovo Cinema dei vari Wenders, Schloendorff, Fassbinder, Kluge, Von Trotta ecc. la Germania si sia riscattata dal grigiore entrando nel gotha della nazioni con un cinema nobile. Invece no. Quel cinema vituperato è un filone aurifero tutto da riscoprire, e sulla carta qua ci sono titoli meravigliosi, come il remake anni Cinquanta del leggendario lesbomovie dei tempi di Weimar Ragazze in uniforme, con una Romy Schneider ragazzina e Lilli Palmer. Ma temo che, dandomi per obbligo di vedermi tutti i film del concorso e il più possibile di Cineasti del presente, non ce la faccia a star dietro alla retrospettiva. Speriamo bene. Mi chiedo solo perché manchi La ragazza Rosemarie di Rolf Thiele, forse il massimo successo di pubblico e di scandalo di quella stagione del cinema tedesco. Intanto ieri sera proiezione prefestival in Piazza di Gotthard, il colossal televisivo svizzero di tre ore sul traforo realizzato nel secondo Ottocento che spianò la starada ai treni tra nord e sud Europa. Un’epopea ricostruita con moltio mezzi e scrittura filmica un po’ troppo primaria, diciamo così. Con parecchie citazioni di Novecento di Bertolucci e C’era una volta il West. Però in piazza la gente è rimasta inchiodata alle sue seggiole giallonere senza scappare via, ed è un buon segno. À bientôt.