Inimi Cicatrizate (Scarred Hearts – Cuori cicatrizzati), un film di Radu Jude. Con Lucian Teodor Rus, Ivana Mladenovic, Marius Damian, Bogdan Cotlet.
A oggi, il mio personale Pardo d’oro. Radu Jude, già autore del bellissimo Aferim! (Orso d’argento a Berlino), si ispira agli ultimi anni di vita di Max Blecher, giovane intellettuale ebreo-rumeno per raccontarci un uomo, e un paese, a un passo dall’abisso. La tubercolosi ossea, il suo ricovero in un sanatorio sul Mar Nero. Ma non aspettatevi un’estenuato film sulla belleza della decadenza, questo non è La montagna incantata girato da un sottoVisconti. Il sanatorio di Radu Jude è sì un anticamera della fine, ma percorsa da un vitalismo inesausto, dall’ebbrezza, dall’ironia beffarda, e da una stoica consapevolezza. Film importante, ma troppo poco ruffiano per piacere al pubblico, alla stampa e, temo, alla giuria. Voto tra il 7 e l’8
Il cinema rumeno, si sa, è una potenza da festival. All’ultimo Cannes venivano da lì due tra i film migliori, quelli di Cristian Mungiu e Cristi Puiu. Nel concorso finora non esaltante di questo Locarno 69 – molte cose buone, scarse le eccellenze – svetta questo Inimi Cicatrizate, Cuori cicatrizzati, per l’appunto made in Bucarest, prodotto dalla gran dama del cinema rumeno, la coraggiosa Ada Solomon (ricordo il suo appassionato speech quando un altro suo film, Child’s Pose, vinse a Berlino tre edizioni fa). Quanto al regista Radu Jude, mica è l’ultimo arrivato. Un altro dei talenti rumeni, che con il bellissimo Aferim! ha vinto alla Berlinale due anni fa un sacrosanto Orso d’argento. Leggendo sinossi e note di produzione di Inimi Cicatrizate non si può non pensare alla Montagna incantata di Thomas Mann. Storia ispirata infatti a quella di un giovane intellettuale ebreo-rumeno, Max Blecher, ricoverato a metà anni trenta in un sanatorio sul Mar Nero per tubercolosi ossea e morto nel 1938, dopo aver lasciato scritti autobiografici, poesie, frammenti saggistici. Gloria postuma, giacché nella sua troppo breve vita non ebbe modo né tempo di ritagliarsi un posto nel mondo. C’era il rischio forte in un film come questo del formalismo e della facile estetica decadente – ah, l’eleganza della malattia, del disfacimento, della morte incombente! -, insomma di un calligrafismo estenuato da Montagna incantata messa in scena da un sottoVisconti (magari ne avesse tratto lui un film). E con dentro pure gli stereotipi da Morte a Venezia. Invece Radu Jude è Radu Jude. Se in Aferim! raccontava un’odissea ottocentesca nei modi del cinema sporco e picaresco, e anche popolare, qui grazie a Dio evita ogni sofisticheria e laccatura e glamourizzazione da salotto-bene del cinema, deludendo di sicuro le signore in platea e i critici più istituzionali e nostalgici, e fors’anche i giurati (staremo a vedere). Perché Cuori cicatrizzati è un ballo sull’orlo dell’abisso vitalistico, ebbro, anche sguaiato e sgangherato, mai compassato, forse maliconico, a tratti presago del dramma, però mai arreso, mai lagnoso e piagnone. Con l’allegrezza dei disperati che non si lamentano e preferiscono l’esercizio intellettuale, il dandistico distacco degli stoici. Lì, nel lazzaretto al bordo del Mar Nero, il mare più triste che c’è (insieme al Caspio, che però è un finto mare), si fan diagnosi tremende, si aspirano litri di pus da ascessi terribili, si amputano gambe, si imbragano gli arti salvati, ed è tutto un gente che va (al cimitero, in altre cliniche) e gente che viene. Qualcuno ce la fa, altri soccombono, ed è come una partita a carte. Però si scopa parecchio lì nelle camere d’ospedale, tra odori di cloroformio e effluvii coporali, e il protagonista Emmanuel – una sorta di alter ego fictionalizzato dello scrittore Max Blecher – ha modo di innamorarsi forte della bellissima serba Solange, guarita, ma incapace di staccarsi da quel posto. Si beve, ci si ubriaca, ci si sollazza. Cuori cicatrizzati è una galleria angosciosamente gaia di corpi in disfacimento e di una vita che resiste nonostante tutto. Altro che decadenza & bellezza, qua dentro ci sono cattivi fluidi corporei, carni e ossa corrose e distrutte, vomiti, perché i vivi che si approssimano alla morte quello producono, oltre che ineffabili e squisite meditazioni sul mondo. Emmanuel è un giovane intellettuale il cui piacere è anche quello di disquisire con alcuni suoi compagni di sventura e medici del sanatorio sul mondo e sull’esistere, e senza metterla giù troppo dura si citano Cioran (e un suo ambiguissimo apprezzamento di Hitler in quanto interprete della Germania profonda), ci si confronta su quanto la Romania sta attraversando (Codreanu e le sue Guardie di ferro paranaziste, l’antisemitismo tara nazionale, di cui si sente l’eco anche in sanatorio). Mentre Emmanuel legge Rudolf Carnap. La tradizione del pensiero tedesco è egemone, influenza le menti migliori rinchiuse lì dentro. Radu Jude ha pure il coraggio di non caricare di troppi simbolismi e pesi metaforici quel sanatorio sul Mar Nero, di non farne un’immagine e prefigurazione della Fine Europa che incombe. E anche l’Olocausto che verrà è solo alluso, con pudore. Certo, non possiamo non pensare a quanto sarebbe successo a Max Blecher, se fosse guarito dalla tubercolosi, con l’arrivo dei nazisti in Romania. Bellissime scenografie, macchinari medici d’epoca, muri scrostati, letti rugginosi, un trionfo medical-vintage molto balcanico, molto est europeo. Girato in pellicola 35 millimetri. (I tessuti cicatrizzati, si spiega nel film, sono insensibili, non trasmettono il dolore.)
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