Festival di Locarno 2016. Recensione: DER TRAUMHAFTE WEG (The Dreamed Path). Cinema al grado zero

OC912906_P3001_220729-2Der Traumhafte Weg (The Dreamed Path – Il sentiero sognato), di Angela Schanelec. Con Miriam Jakob, Thorbjörn Björnsson, Maen Eggert. Germania. Concorso internazionale.OC912907_P3001_220730Uno dei film più ostici e antinarrativi di questo Locarno. Di cui afferriamo a malapena qualche frammento. Una fatica che puoi accettare solo in presenza di un capolavoro, e non è questo il caso. Storia di due coppie, e di personaggi catatonici. Cinema del vuoto, anzi del nulla. Voto 4
OC912908_P3001_220731Che fatica, e che noia sant’Iddio. Ma perché al cinema, a un festival, bisogna soffrire così? Che almeno ci toccasse alla fine un capolavoro, invece macché, neanche quello. Il made in Germany Il giardino sognato è solo un film pretenziosissimo e confuso, programmaticamente ostico, che  ambirebbe a farsi esplorazione del cinema del domani ed è invece cinema al suo grado zero. Dilagano ormai i film come questo che-non-si-fanno-capire, astrusi, volutamente per pochi anzi per nessuno, che è il massimo dell’elitarismo, film anzi non-film che costringono lo spettatore più paziente e bendisposto a rompicapi che neancheil sudoku (gli altri scappano dalla sala, e forse hanno ragione loro). Der Traumhafte Weg, come altri tetri esempi della tendenza, destruttura il racconto, sottrae dati e informazioni allo spettatore, mostra fattualmente senza dire e spiegare, azzerando ogni nesso narrativo e logico, ogni indizio, soegnendo ogni barlume che possa guidare chi guarda alla comprensione di quel che succede. Chi sono quei personaggi che vagano catatonici, che fanno, dove vanno? Ormai è una mania, una malattia, una pandemia. Con registi convinti che l’alta autorialità passi dall’ermetismo più radicale, dalla pratica dell’ellisse e del non-detto. Scorrono immagine irrelate e celibi, e se lo spettatore non ci si raccapezza peggio per lui. Ora, non sono un passatista che rimpiange il vecchio ordine cinenarrativo, accetto anche i film-sudoku come certi Tsai Ming-liang o Post Tenebras Lux di Reugadas a patto che l’esoterismo e l’opacità mi portino da una qualche parte, in qualche luogo interessante della mente e del mondo. Ma se la partita per me è persa, se il film è solo una macchina autoreferenziale, allora no grazie. E Il sentiero sognato non è nemmeno il più ostico tra i film di di Locarno 69, s’è visto e si continua a vedere di peggio. Allora: siamo in Grecia nel 1984, mentre il paese sta entrando nell’Unione europea. L’inglese Kenneth e la tedesca Theres sono cantanti da strada, forse per pagarsi la vacanza laggiù, o forse perché così hanno scelto di vivere. Forse. Stanno insieme, ma son costretti  separarsi quando lui deve tornare a casa dopo che la madre ha avuto incidente, e lei in Germania. Apprendiamo intanto che Ken è un eroinomane che non ce la fa a uscirne, che è tormentato dal suo sentirsi fuori posto e, come in un vecchio Bergman, dal silenzio di Dio. Ora, questa primissima parte con un drug addicted che cerca Dio mi ha fatto sperare in un film differente, e intellettualmente audace. Mi illudevo. Perché poi Il sentiero sognato diventa il solito guazzabuglio di personaggi diversi e storie diverse che a un certo punto si sfiorano e/o collidono. Solo che qui tutto si perde nell’insignificanza. Il film, dopo la sua prima partem riprende trent’anni dopo, con Theres a Berlino con un figlio ormai grande (forse avuto da Ken, ma siccome niente ci viene detto al riguardo possiamo solo ipotizzarlo). Mentre Ken continua a vivere sulla strada, e perso nell’eroina. Intanto, chissà perché, la regista vira su un’altra storia, un’altra coppia, lei attrice, lui non si capisce bene, che decide di divorziare. Questo è quanto son riuscito a capire e a mettere insieme di un film che, sottraendo sottraendo, finisce con lo svuotarsi e diventare il nulla. Tutto girato in uno stile rarefatto, personaggi che vagano catatonici, molti silenzi, in interni ed esterni per lo più plumbei, e se non lo sono di loro lo diventano nella livida fotografia del film (il pizzaledella Hauptbanhof di Berlino stringe il cuore a vederlo). Restano quei primi quindici minuti, resta quella confessione folgorante del figlio eroinamene al padre (il quale gli dice solo: “Ti serve della morfina?”). Ma non basta per salvare un film impossibile, e che però lascia almeno sperare nella regista Angela Schanelec, questo sì.

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