Istirahatlah Kata-Kata (Solo, Solitude) di Yosep Anggi Noen. Con Maryanto Gunawan, Anita Marissa. Indonesia. Concorso Cineasti del presente. Voto 4 e mezzo
Una dura prova di resistenza anche per i festivalieri che ne hanno viste di ogni. Dall’Indonesia, due anni nella vita del poeta, sindacalista, attivista democratico Wiji Thukul in una stagione cruciale per la storia nazionale: quella tra 1996 e 1998, con la nascita di una partito democratico non allineato al regime di Suharto, le manifestazioni di piazza, la repressione, la caduta del dittatore. Wiji Thukul per sfuggire alla polizia che gli dà la caccia scappa da Giava, dove vive con la moglie e le due figlie, e se ne va sotto falsa identità in un villaggio del Borneo. Due anni di clandestinità, scrivendo, facendosi ospitare da amici e compagni, incontrando segretamente e tra molti pericoli la moglie. Solo che siamo sideralmente lontani dai codici e dalle convenzioni del cinema biografico-militante-celebrativo cui siamo abituati in Occidente. In questo Solo, Solitude (lasciamo stare il titolo indonesiano) spira un’aria da cinema asiatico dei più ieratici ed estremi, cinema dei tempi dilatati, della contemplazione e della lentezza tra inquadratre spesso fisse e minimi movimenti di macchina, e personaggi che si muovono come sonnambuli o figuranti di una qualche sacra rappresentazione locale. Si avverte la lezione di due maestri di quell’area, il thailandese Apichatpong Weerasethakul e il filippino Lav Diaz, e più il secondo del primo. Il regista è più interessato alla parola del protagonista, e alla sua interiorità e vita privata, che alla sua pratica politica di cui poco ci viene detto e mostrato. Wiji Thukul svanirà nel nulla poco dopo la caduta di Suharto, e il film lascia aperta la questione: sparizione volontaria, magari suicidio, o delitto politico? Pochi quelli che al press-screening hanno resistito fino alla fine all’ipnotico flusso di immagini, spesso con il protagonista a parlar recitando e poetizzando. Con scarne spiegazioni al povero spettatore, che deve arrangiarsi, al solito, a mettere insieme i pezzi. Ridateci il cinema militante e pure un po’ trombone degli anni Sessanta-Settanta, almeno lì si capiva tutto.
Viejo Calavera (Dark Scull), di Kiro Russo. Con Julio Cesar Ticoa, Narciso Choquecallata. Bolivia, Concorso Cineasi del presente. Voto 4
Visto subito dopo l’indonesiano di cui sopra, mi ha quasi dato il colpo di grazia. Con Viejo Calavera anche la Bolivia dimostra di saper confezionare film da festival astrusi e pretenziosi, formalmente e tecnicamente avanzatissimi quanto oscuri nella narrazione. Che, si sa, se si vuol diventare registi fighi ed entrare nel radar dei recensori spocchiosi, va destrutturata e decostruita, e oscurata in modo da non lasciare scampo allo spettatore (il contrario, ovvero una storia chiara e lineare, è considerata cosa cheap). Siamo in ua città mineraria sulle Ande boliviane. Lunghe sequenze con gente nei cunicoli, quasi sempre primi e primissimi piani (anche quelli si usano moltissimo ormai, sono un altro segno del cinema cool), mentre quando non si è in miniera si è in qualche misera casupola, o di notte tra dirupi e declivi, e sempre con gente in primo piano che beve (moltissimo) e turpiloqueggia (moltissimo). Par di capire che a un ragazzo sbandato, diciamo il protagonista, hanno ucciso il padre – forse una cosa tra ubriachi, lì son tutti sempre ubriachi – e pare che il responsabile sia lo zio, e sottolineo il pare. Con la nonna che è tutta contenta che gli hanno ammazzato il figlio perché lui la menava in continuazione. Però, dicono i suoi compagni minatori (che intanto scioperano e lottano) era un gran lavoratore. Non si può dire altrettanto del figliolo che in miniera ci sta malvolentieri, beve ettolitri di alcol e poi piscia dappertutto. Sembra che il ragazzo soffra, sia roso dentro dalla voglia di vendicarsi, ma la cosa non così sicura. Tra molti primi piani ravvicinatissimi, molte bestemmie, grandissime bevute si arriva a un finale incomprensibile. Però il regista, che di nome fa Kiro Russo, gira (e monta) con la sicurezza e la sicumera di chi ha fatto le sue belle scuole di cinema e ha già fatto il giro con corti e lunghi di festival importanti, a partire dal Sundance. Non c’è un’inquadratura fuori posto, mai la dura vita dei minatori è stata ripresa con tanto senso dello stile. Sì, ma la storia dove sta?
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