Il Clan, un film di Pablo Trapero. Con Guillermo Francella, Peter Lanzani, Lili Popovich, Gaston Cocchiarale, Giselle Motta. Al cinema da giovedì 25 agosto.
Primi anni Ottanta, Argentina. Mentre il regime dei generali si avvia al crollo, un addetto dei servizi segreti mette su un’azienda familiare di rapimenti a scopo di lucro. Tutti sanno, la moglie, i figli, che anzi collaborano fattivamente all’impresa. Il male come ordinario quotidiano. L’omicidio e la tortura come un qualsiasi lavoro. Pablo Trapero è bravissimo nel farci vedere la mostruosità del normale. Presentato in concorso a Venezia 2015, dove ha poi vinto il Leone d’argento per la regia. Voto: tra il 7 e l’8
Made in Argentina, con però alle spalle la produzione di Pedro Almodovar e del fratello Agustin tramite la loro Deseo, Il Clan di Pablo Trapero sfiora il grandissimo risultato, il capo d’opera, se non fosse per qualche vistosa caduta (un imperdonabile, quasi pornografico montaggio alternato di una scopata con la scena di tortura di un ostaggio) e per un sovraccarico ideologico-politico che connette il racconto di una famiglia criminale e dei suoi misfatti alla dittatura dei generali tra anni Settanta e Ottanta, spiegando troppo sbrigativamente i primi con la seconda. Ma questo è cinema di rara potenza, che finalmente si misura con un caso (di vera e nerissima cronaca) sconvolgente, con i demoni che stan sotto la civilizzazione e la borghese vita dei suburbia, che non si perde nei narcisismi e negli ombelicalismi di tante cose e cosucce viste anche a questo Venezia Film Festival. E alla fine del press screening, lungo e sacrosanto applauso.
Nell’ultimo anno della dittatura militare (1982), in un regime già vacillante in cui comincia la resa dei conti, Arquimedes Puccio, lavoratore dei servizi segreti con parecchi figli a carico, capisce che è ora di riciclarsi. Di trovare nuove fonti di denaro. Avendo, si immagina, sviluppato un certo know-how durante il regime in fatto di torture, rapimenti di oppositori e altre sporchissime faccende, pensa di mettere a frutto quanto ha imparato mettendo su un’aziendina familiare insieme a un paio di amici. Un’azienda di rapimenti a scopo di lucro. Tutti in famiglia sanno, la moglie, i figli, le figlie. Il rampollo più grande, star della squadra argentina campione di rugby, vien subito coinvolto come braccio destro, incaricato di individuare i bersagli grossi e di far da picchiatore quando occorre. Un paio di loschi figuri, probabilmente pure loro implicati nei servizi, vengono arruolati come manovalanza. Un rapimento, due, tre. Si terrorizzano i familiari degli ostaggi fingendosi un gruppo armato rivoluzionario, si incassano i soldi, si ammazzano i rapiti. Una catena di montaggio del massacro e dell’accumuazione barbara del capitale, il boss e i suoi non si fermano davanti a niente, alla tortura, all’inganno, e intanto in cassaforte i soldi si ingrossano. Si pensa a certi clan parentali mafiosi criminali, o alla Ma’ Barker e i suoi figlioli portati in cinema una vita fa da Roger Corman (Bloody Mama). Ma qui è peggio, non c’è nemmeno il cattivo romanticismo che aureola chi si mette contro la legge. Qui c’è solo l’azzeramento di ogni morale, la pura logica solidale familiar-genetica, l’avidità. E però quello che sconvolge del film di Trapero, e che lo rende opera notevole, è che la mostruosa famiglia dei Puccio (questo il nome) ha tratti di assoluta normalità, e mentre là sotto in cantina l’ostaggio torturato urla, la mamma cucina, si informa amorevolmente di come stanno i figlioli, e tutti insieme si guarda la tv, e il papà dà il bacio della buonanotte. Il male si è fatto, semplicemente, quotidiano, si è (me lo consentite?) banalizzato, l’omicidio è diventato pratica quotidiana, ordinaria, un lavoro tra i tanti possibili, solo più impegnativo, sporco e lucroso. Non c’è mai traccia di moralismo prdicatorio nel film, tutto vien rappresentato fattualmente, orrore dopo orrore. E il cinema che viene in mente, per affinità e analogia, è quello greco degli anni recenti, con i suoi capifamiglia che intrappolano nel proprio reticolo di manipolazioni, inganni e occulte persuasioni le mogli, i figli, e mi riferisco a Dogtooth di Yorgos Lanthimos e a Miss Violence di Alexander Avranas. Pablo Trapero gioca anche con l’architettura narrativa e, come si vede sempre più spesso nel cinema da festival, destruttura ogni linearità, rimescola i piani temporali con fughe in avanti e repentini salti all’indietro. In questo modo riuscendo a mantenere intatta la tensione, e l’attenzione dello spettatore, in un racconto che altrimenti sarebbe a forte rischio di ripetitività. Il Clan perde quota quando pretende di fornirci chiavi interpretative troppo nette e monodimensionali, quando ci suggerisce che il mostro Arquimedes Puccio è il frutto marcio e il figlio legittimo di un regime che ha abbondantemente varcato i confini della pratica criminale su larga scala. Vero, gli aguzzini di mestiere probabilmete sviluppano un’assuefazione all’esercizio della violenza che li rende cieche, e dunque pericolosissime, macchine distruttive. Ma, in casi come questo, c’è sempre di più e dell’altro, c’è il male, ecco. Grande performance di Guillermo Francella, il manipolatore boss di famiglia, che se non fosse stato per il Fabrice Luchini di L’hermine avrebbe vinto a mani basse la Coppa Volpi a Venezia 2015 come migliore attore. E comunque, in un palmarès assai filo-sudamericano, Il Clan s’è portato via il Leone d’argento per la migliore regia.
CERCA UN FILM
ISCRIVITI AI POST VIA MAIL
-
-
ARTICOLI RECENTI
- Berlinale 2023. Recensione: LE GRAND CHARIOT di Philippe Garrel. Giusto il premio per la migliore regia
- Berlinale 2023: SUR l’ADAMANT di Nicolas Philibert. Recensione del flm vincitore
- Berlinale 2023, vincitori e vinti: l’Orso d’oro a Sur l’Adamant e gli altri premi
- Berlinale 2023. Recensione: ROTER HIMMEL (Cielo rosso) di Christian Petzold. Partita a quattro
- Berlinale 2023. I FAVORITI all’Orso d’oro (e al premio per la migliore interpretazione).
Iscriviti al blog tramite email