Katmandu, Rai Movie, ore 0,55.
Quante mitologie costruite ex post, parecchio edulcorando e dipingendo in rosa la realtà e la storia, intorno alla stagione hippie, del frikkettonismo lisergico attratto tra anni Sessanta e Settanta da India, Nepal e vari dintorni. Posti esotici spacciati da queste parti per paradisi in terra ora per via di buddismi ora di induismi mal digeriti, e invece solo mete di strafattoni d’Europa e America ansiosi di farcirsi di droghe, eroina in testa, a buon mercato. Un discount di massa delle sostenza alteranti e psicotrope. Chissà perché quella stagione selvaggia si sarebbe poi fissata nelle memorie collettive come la Grande Evasione tra pseudofrattellanze universali e pacifismi. Chi se la ricorda bene non può seriamente provarne nostalgia, chi non l’ha vista e ne conosce solo la leggenda almeno dia un’occhiata a questo film francese del 1969 che di quella realtà è in molte parti uno specchio fedele, benché incrinato e sfregiato dall’allora vituperatissimo perbenismo e moralismo borghese. Titolo originale: Les chemins de Katmandou, Le strade di Katmandu, assai più pertinente, a indicare i percorsi di chi si metteva in pista spesso in autostop dall’Europa fino al Nepal – passando per Turchia, Iran e Afghanistan! – consumando on the road vagonate di hashish e magari oppio arrivato fresco fresco dalle coltivazioni vicine. Alla regia un nome ilustre anche se oggi cancellato dalle memorie e dagli annali del cinema come André Cayatte, mestierante assai robusto e portato per melodrammi a sfondo sociale e legale diventato famoso negli anni Cinquanta con titoli come Giustizia è fatta – vittoria a Venezia a inizio decennio – e Occhio per occhio. E passato alla storia infame come colui che con Il passaggio del Reno rubò nel 1960 alla mostra di Venezia, nell’edizione forse più controversa di sempre, il Leone d’oro a Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti. Così volle la giuria, procurando all’incolpevole Cayatte l’anatema perpetuo. Katmandu arriva dieci anni dopo, nella fase discendente della sua carriera, ma oggi resta uno dei pochi film in grado di restituirci l’età placcata d’oro del passaggio in India di hippie e compagnia. Oltretutto, tra gli attori ci sono la meravigliosa Jane Birkin e il suo mitico compagno Serge Gainsbourg, anche autore delle musiche, la cui presenza già giustifica da sola la visione. In più ci sono Renaud Verley nel ruolo centrale (era Telemaco, il figlio d’Ulisse, nella grandissima Odissea televisiva di Franco Rossi: capolavoro!) e Elsa Martinelli. La storia? Un ragazzo francese parte per il Nepal a rintracciare il padre là insabbiatosi per motivi da chiarire. Sulla strada incontrerà Jane, una ragazza tossicomane, Jane Birkin naturalmente. Se ne inamorerà, si illuderà di salvarla, di farla “uscire dal tunnel”, ma perderà la sua personale battaglia. Cayatte non faceva certo parte di quella generazione, eppure questo suo melodramma, allora accolto malissimo dai critici, si presenta adesso come un reperto d’epoca assai fedele. Solo per esploratori coraggiosi, e privi di pregiudizio, del cinema del passato.
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