Festival di Venezia. Recensione: THE LIGHT BETWEEN OCEANS di Derek Cianfrance. Puro cinema-mélo della restaurazione

The Light Between Oceans (La luce sugli oceani), un film di Derek Cianfrance. Con Alicia Vikander, Michael Fassbender, Rachel Weisz. Concorso Venezia 73.
THE LIGHT BETWEEN OCEANSMa cosa succede a Venezia? Stamattina il ritorno al musical classico con La La Land, questo pomeriggio la riesumazione del melodramma anni ’40 per signora con The Light Between Oceans. Siamo al cinema di papà, anzi delle vecchie zie. In The Light Between… un guardiano del faro (Fassbender!) laggiù nell’emisfero australe e la di lui moglie (Vikander!) fan da genitori a una trovatella del mare. Finché la vera madre si rifà viva. Cose che neanche Matarazzo, tra disastri naturali e umani, gravidanze interrotte e maternità simulate. Eppure Cianfrance riesce miracolosamente a tenersi a galla e non cadere nel ridicolo, confezionando un mélo furibondo e convinto. Voto 6

Una giornata, questa prima di Venezia 2016, di puro cinema della restaurazione. Rappel à l’ordre! Ritorno all’ordine, e al passato (remoto). Il trentenne Damien Chazelle recupera con il suo musical citazionista La La Land Gene Kelly, Fred Astaire-Ginger Rogers e le coreografie di Vincente Minnelli, senza peraltro riuscire nell’impossibile impresa. E il secondo titolo di oggi del concorso, The Light Between Oceans, torna sfacciatamente e senza minimamente vergognarsi al melodramma anni Trenta-Quaranta, di quelli con eroine massimamente sofferenti immerse in paesaggi devastati da tormente, tempeste, maelstrom e altre rabbie della natura. Pensare che alla regia c’è il Derek Cianfrance che ci ha dato qualche anno fa prima Blue Valentine e poi Come il tuono, entrambi ipermodernamente duri e tosti nel loro scavare nelle ferite e nelle piaghe di coppie e famiglie sconnesse. Ecco, qui riprende i temi a lui cari del farsi male a due e in due, e dei figli coinvolti loro malgrado nei disastri dei padri. Ma impaginando il tutto come in quelle vecchie pellicole in bianco e nero per signore che si vedono solo in qualche negletta tivù periferica e che nessuno da tempo immemorabile osava più confezionare. E che nessun festival osava più invitare in concorso. Invece eccoci qua con questo Il faro tra gli oceani dove su schermo grande (e quello della Sala Darsema dov’è stato dato in press screening è grandissimo) ne abbiam viste di ogni. Mareggiate, tempeste, fari persi nel nulla laggiù alla fine del mondo (siamo se ho ben capito da qualche parte in Australia o Nuova Zelanda), vite sacrificate nella più estrema solitudine. E paesaggi selvaggi e bellissimi, tramonti pornografici da tanto son rossi e da tanto che si riflettono nell’oceano. E maternità agognate fino al delirio, maternità dolorosamente interrotte, maternità sostitutive. Scomparse di pargoli e agnizioni. Uomini e donne sempre perfettamente agghindati – siamo nei primi anni Venti – nonostante si muovano in postacci disagiati e inospitali e facciano i lavori manuali più sporchi e pesanti. Aggiungeteci la musica roboante e onnipresente di Alexander Desplat e vi sarete fatti un’idea. Per almeno quaranta minuti sbuffi e ti viene da dire: ma era proprio il caso di farlo venire a Venezia? Vero che ci sono Fassbender e la Vikander, la coppia più bella e brava in circolazione, ma a tutto c’è un limite. Poi ti rendi conto che Derek Cianfrance – che ha lavorato su un romanzo di M.L. Stedman – ha messo a punto una macchina narrativa infallibile, anzi una macchina da guerra che ti ingoia, ti stritola e non ti dà scampo. Come quel cinema che si faceva e adesso non si usa e osa più fare. Cianfrance utilizza con consapevolezza e cinismo il cinemascope al massimo delle sue possibilità, affermando orgogliosamente il primato del cinema-spettacolo sulla tv e sulla serialità televisiva, e anche grammatica e sintassi non sono così elementari, c’è un uso massiccio e giustamente disurbante dei primi piani e dei dettagli a schermo pieno, come in tanto cinema giovane, e non si disdegna nemmeno l’uso qua e là della macchina a mano. Pur senza barocchismi ed eccessi visivi alla Baz Luhrmann, Cianfrance riesuma un cinema di tellurica potenza comunicativa, e lo fa senza sensi di colpa, fregandosene dei rischi del kitsch. Siamo agli Antipodi, primi anni Venti. In un piccolo centro sperduto in riva all’oceano arriva Tom. Dopo quattro anni di guerra di trincea ora cerca l’isolamento, forse l’annullamento di sé nel vuoto. E quando gli si offre l’occasione di diventari il guardiano del faro di Janus accetta. Conoscerà Isabel, si innamorerann, si sposeranno. Ma, là sotto il faro, l’infelicità arriva attraverso le due gravidanze che Isabel non riesce a portare a termine, attraverso due figli perduti. Finché un giorno il mare sembra restituire quello che è stato tolto: una bambina, poco più che neonata, trovata da Tom su una barca alla deriva insieme al cadavere di un uomo. Il guardiano del faro vorrebbe denunciare tutto alle autorità, ma Isabel no, vuole che quella diventi la figlia che non hanno avuto e non potranno mai più avere, e Tom si piega, accetta: seppellisce il cadavere dell’uomo, fingerà davanti al mondo che quella sia la loro bambina. Ma il giorno del battesimo di Lucy ecco una donna piangere sulla tomba vuota del marito e della figlia scmparsi in mare, e allora Tom capisce. Da lì si innescano dinamiche sempre più veloci e devastanti, e per Tom, Isabel e Lucy niente sarà più come prima. Matarazzo, si direbbe, e in parte lo è. La vera e la falsa madre, e la piccola che non vuole tornare con la vera e stare con la falsa. Inducendo qualche non inutile riflessione su maternità e paternità biologiche e culturali. Con qualche eco del pirandelliano La vita che ti diedi. Alla fine Derek Cianfrance vince una battaglia che sembrava persa in partenza, quella di coinvolgerci in una storia desueta e ingiallita. Credendo nel cinema-cinema e scommettendo sulla sua inossidabilità, andando parecchio oltre il period-movie e portandolo al punto di esplosione e non ritorno. Mi aspettavo fischi rumorosissimi a fine proiezione stampa, questo è un film che a un festival i fischi se li tira addosso, invece quasi niente, anzi perfino qualche applauso. Mi sa che The Light Between  Oceans potrebbe fare più strada di quanto si sarebbe potuto immaginare leggendone la sinossi (no, non in zona premi veneziana, che vinca qualcosa qui è semplicemente impensabile, mi riferisco al box office internazionale). Michael Fassbender e Alicia Vikander sono così bravi che riuscirebbero oggi a venderci qualsiasi cosa, dunque anche un film à la Matarazzo come questo. Lo stesso dicasi per Rachel Weisz (la vera madre).

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