Festival di Venezia. Recensione: LES BEAUX JOURS D’ARANJUEZ (3D). Il miglior Wim Wenders da parecchi anni in qua

27474-Les_Beaux_Jours_d_Aranjuez____Donata_Wenders_3Les beaux jours d’Aranjuez (3D), un film di Wim Wenders tratto dalla pièce teatrale (scritta in francese) di Peter Handke. Con Sophie Semin, Reda Kateb, Peter Handke, Nick Cave. Concorso Venezia 73.
27486-Les_Beaux_Jours_d_Aranjuez____Donata_Wenders_5Un incanto, questo dialogo tra un uomo e una donna scritto da Peter Handke. Il quale torna dopo molto tempo a collaborare con Wim Wenders (per il quale aveva sceneggiato tra gli altri Falso movimento e La paura del portiere prima del calcio di rigore). E stavolta la reunion non delude. Wenders asseconda e rispetta la partitura verbale di Handke e non sbaglia niente. Riprendendo meravigliosamente la natura, gli alberi che avvolgono la coppia protagonista, catturandone la vita e il respiro. Voto 8+
27484-Les_Beaux_Jours_d_Aranjuez___Donata_Wenders_4Wim Wenders è diventato un addicted del 3D, dopo Pina e Everything Will Be Fine non sembra poterne più fare a meno, tanto da usarlo perfino in un piccolo film come questo, squisito esempio di teatro filmato (no, non si può dire teatro da camera, svolgendosi il dialogo tra la coppia protagonista tutto open air, su una terrazza protesa su un parco). Ma va bene strafare con il 3D visto che Les beaux jours d’Aranjuex – ma che bel titolo, finalmente – celebra il ritorno alla collaborazione tra Wim Wenders e Peter Handke, il gran scrittore e drammaturgo austriaco che firmò la sceneggiatura di La paura del portiere prima del calcio di rigore e Falso movimento, cioè il meglio della migliore stagione wendersiana. Le rimpatriate, le reunion son sempre rischiose, ma stavolta il ritorno al passato non delude, anzi rivitalizza un regista che sembrava perso alle cause importanti. Non che Les beaux jours d’Aranjuez abbia fatto impazzire la platea stampa qui a Venezia. Figuriamoci, troppo algido, concettuale, aristocratico, anche rischiosamente arty, anche troppo spudoratamente altoautoriale e veteroautoriale per piacere a giovani e giovinastri che infatti hanno sbuffato, sogghignato, quando non son scappati fuori dalla Sala Darsena. Ma che volete, un Wenders-Handke è affare generazionale, al di sotto dei 45 anni quei due chi li capisce più, chi li apprezza. Quale venti-trentenne pur cinefilo è in grado di reggere quei minimi, impercettibili ma assai strutturanti movimenti di macchina intorno a due persone – un uomo una donna – che disquisiscono apparentemente del nulla. Estenuandoci magari. Usando una lingua colta e piena di sfumature, di ombre, di mezzitoni, una lingua che rende aerea, lieve e trasparente una materia anche carnale, densa e magmatica, come il sesso, di cui molto si parla. Una lingua che punta al sublime rischiando dunque parecchio il kitsch sentimentale, ma grazie a Dio solo sfiorandolo e senza mai caderci dentro. Un dialogo di limpidezza settecentesca magistralmente scritto da Handke, il quale col tempo ha saputo mantentere tutto il potere evocativo della sua parola. E non è cosa poi scontata, perché l’anno scorso sono mal capitato una sera a teatro con un testo di uno scrittore coevo di Handke, Botho Strauss, assolutamente inguardabile e inascoltabile. Saggiamente, Wenders rispetta la parola, non prevarica, non la sovrasta con un eccesso di cinema, anzi usa il cinema per darle piena dignità e metterla al centro della scena. Uno scrittore infila un foglio nella macchina da scrivere (e non sappiamo se siamo in era predigitale o se il signore è solo un nostalgico della meccanica secondo certe mode hipster), quello che scrive si materializza sulla terrazza in un uomo e una donna e in quello che si dicono. Intorno e davanti a loro, un parco maestoso. Sullo sfondo, lo skyline di Parigi. Sono entrambi tra i quaranta e i cinquanta, non sappiamo se siano amici, o amanti, o marito e moglie. Lui pone domande sulla sessualità, lei risponde. Ed è lei soprattutto a parlare nel corso del tempo del film. Della sua prima volta, e di molte storie successive. Finché il dialogo, pur nell’educazione dei modi, si trasforma in un quasi-scontro uomo-donna, in una guerra verbale dei sessi. Lui perlopiù ascolta, e il massimo di sé lo concede quando ricorda la sua visita lontana nella residenza reale di Aranjuez (e quella descrizione dei frutti inselvatichiti è una meraviglia). Si resta incantenati, e incantati. Il gioco abbastanza sdato dello scrittore e dei suoi personaggi che si materializzano è condotto da Wenders e Handke con leggerezza, senza mai calcare troppo in tardopirandellismi. Ritroviamo come spettatori il piacere dell’ascolto di una conversazione intelligente, a tratti scintillante, insieme diretta e piena di sottintesi, mentre Wenders non sbaglia niente, aggiungendo di suo le riprese del parco, degli alberi continuamente mossi dal vento, come mormoranti. Una natura che respira, parla, vive, che sembra a momenti fare da coro, e che è la migliore invenzione del film. Sentiamo Perfect day di Lou Reed, pezzo molto amato ultimamente dal cinema. Purtroppo Wenders commette l’errore, l’unico, di mostrarci Nick Cave eseguire al piano un suo pezzo. Onore ai due attori, lei, Sophie Semin, e lui, Reda Kateb. Cameo di Peter Handke quale giardiniere un po’ maldestro. E si esce dalla sala in stato di grazia, con la voglia di riascoltare ancora e ancora i dialoghi di Handke. (E io pure con il rimpianto di essermi perso a Locarno un documentario-intervista a Handke: quando mai potrò ripescarlo?).

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