Festival di Venezia. Recensione: ARRIVAL di Denis Villeneuve. Ritorno alla fantascienza umana

Arrival, un film di Denis Villenueve. Con Amy Adams, Jeremy Renner, Forest Whitaker, Michael Stuhlberg. Basato sul racconto Storie della tua vita di Ted Chiang. Concorso Venezia 73.
ARRIVALDal regista di La donna che canta e Sicario un fantascientifico con al centro il fattore umano, secondo la lezione di Odissea nello spazio e del Tarkowski di Solaris. Sbarcano gli alieni, si cerca di comunicare con loro per capire se abbiano intenzioni ostili o no. Ma più che nei mistero del cosmo questo è un viaggio nella nostra parte di cosmo, quella che abitiamo. Gli alieni siamo noi. Buon film, con il limite però di qualche oscurità di troppo. Voto tra il 6 e il 7

ARRIVALTra i primi tre hollywoodiani (o semihollywoodiani) del concorso – i primi due essendo La La Land e The Light Between the Oceans – questo Arrival è decisamente il meglio. Non così assoluto, non così memorabile, non così all’altezza delle molte e forse eccessive attese come si conviene per un film del regista di Incendies e Sicario. Ma Villeneuve, nonostante l’oscurità del plot, vero punto di fragilità dell’operazione, ce la fa a condurre in porto un fantascientico colossale come esige il mercato senza scadere nella giocattoleria, e invece attenendosi a quel filone nobile e glorioso della fantascienza umanistica che ormai sembrava eclissato dalle mostrerie varie con uso e abuso di CGI e quant’altro. Rispetto alle figurine piatte e bidimensionali, da graphic novel prontamente riporodotta su grande schermo con la stessa mancaza di profondità, dei vari reboot di Star Wars e Star Trek e dei pur rispettabili supereoistici Marvel, Arrival più che raccontare di alieni va a scavare nelle nostre alienazioni, nella gente che sta da questa parte del cosmo, mostrandone corpi e menti dove stanno incapsulati ricordi angosciosi. Quella fantascienza che abbiamo conosciuto e amato tra anni Sessanta e Settanta, da Kubrick fino al meraviglioso Tarkowski di Solaris cui questo Arrival qua e là somiglia, e di Stalker. Si va nel cosmo, o si comunica con creaure dal cosmo venute, per esplorare il cosmo altrettanto misterioso che siamo noi, e quegli alieni a noi stessi che siamo. In Solaris Tarkowski ci faceva approdare su una stazione spaziale dispersa e dismessa per farci ripiombare nel passato e nelle memorie dei suoi personaggi, qui la linguista Louise (una Amy Adams al solito bravissima e dominatrice dello spazio schermico) cerca di parlare con le creature venute da chissà dove e per chissà quale motivo, per poi scoprire che quel loro viaggio sarà anche il suo viaggio dentro le fratture della sua vita. Naturalmente è spettacolo, e ottimo, dunque Villeneuve non ci aduggia con spieghe e pensosità e considerazioni psuedofilosofiche (che invece abbondavano in quei film anni Settanta), perferendo mostrare e svelare la complessità attraverso il farsi, lo srotolarsi di azione e narrazione. Azzeccando la pulsazione del film e la sua temperatura interna, temperatura costante, senza sbalzi, come in un ecosistema cui siano garantite condizioni di perfetta stabilità. Arrival si snoda senza climax particolari, piuttosto secondo un flusso costante e avvolgente, e anche questo per un prodotto ad alta spettacolarità è cosa insolita che svela l’ambizione del progetto.
Da qualche parte dello spazio atterrano in vari punti della terra oltre una decina di strane navi spaziali ovoidali, con probabili alieni dentro. Da dove vengono? Chi sono? Soprattutto, cosa vogliono? Hanno intenzioni ostili o no? Parte il sistema di controllo e di contenimento dell’ignoto. Louise, docente di linguistica, viene chiamata perché riesca a stabilire un ponte comunicativo con quelli là, le creature. Ovvio che, messa faccia a faccia – solo una parete la separa – con i due alieni chimati prontamente Gianni e Pinotto, non ci metta molto a stabilire il contatto. Il che è francamente poco credibile. Capisco che tirarla troppo per le lunghe avrebbe allontanato il popolo del popcorn dalle sale, ma un attimo meno sbrigativi no? ma come avrà fatto la pur geniale glottologa a decifrare quelle inchiostrate a forma di cerchio prodotte da G&P? Senza neanche a disposizione uno straccio di equivalente della stele di Rosetta, oltretutto. Ma è il cinema, bellezza. Naturalmente il mondo si dividerà tra chi vuole il dialogo e chi invece li vuole distruggere, quelli venuti dallo spazio (ogni allusione alle paranoie antistranieri dell’Occidente oggi è forse voluta).Non succede granché, succede che inoltrandosi nei misteri dell’universo la glottologa Louise scenderà nel suo inconscio, e non dico altro. Villeneuve crea sequenze di massima suggestione, come i dialoghi attraverso la parete trsparente, ma non ce la fa a scagliare il film oltre il suo destino annunciato di onestissimo prodotto. Tutta la parte sul passato e il futuro di Louise, e sul suo dono (non posso dire di più), resta alquanto oscura e indecifrabile, e se questo velocizza il film e impedisce tempi morti, finisce col penalizzarlo. Ma credo, spero, che sia un successo al box office, di film come questi che sappiano essere popolari ma non corrivi c’è bisogno come il pane.

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