I magnifici sette (The Magnificent Seven), un film di Antoine Fuqua. Con Denzel Washington, Ethan Hawke, Chris Pratt, Vincent D’Onofrio, Lee Byung-hun, Manuel Garcia Rulfo, Peter Sarsgaard.
Molto meglio dell’altro remake di questo inizio di cinestagione, l’inerte Ben-Hur. Il nuovo I magnifici sette rispetta in superficie l’originale del 1960 adottandone lo schema narrativo. In realtà si allontana dal western classico per riproporre se mai i modi di quello italiano di Leone e Corbucci, e soprattutto buttandola sull’action adrenalinico e lo spara-spara. Operazione tutto sommato riuscita. Qualche correttezza politica di troppo (il manipolo dei sette è assai multiculturale), ma lo spettacolo c’è. Voto 7
Ma son tanti o pochi 35 milioni di dollari al box office americano nel primo weekend di programmazione? Sono tanti, però un filo al di sotto di quanto la Sony si aspettava da questo remake di uno dei più famosi, e pure più amati, western di sempre, ovverossia I magnifici sette del 1960, regia di John Sturges, interpreti (tra gli altri) Yul Brinner e Steve McQueen, a sua volta remake spostato in terra di frontiera del classico I sette samurati di Akira Kurosawa. Il fatto è che il western ha perso, e mica da ieri ma da decenni, il suo rango di genere primo del cinema di Hollywood, un genere che agli occhi del pubblico dei millennials appare irrimediabilmente vetusto, obsoleto, di massima inattualità, incapace di farsi metafora dell’oggi o di alcunché. Si direbbe che lo stesso regista Antoine Fuqua, uno che del muscolare, dell’adrenalinico e del machismo fatti cinema se ne intende (dal bellissimo Training Day al recente e sottovalutato Southpaw), ne sia consapevole, tant’è che il lato davvero interessante di questa operazione è il suo piallare via dal quadro di riferimento il western classico americano alla John Ford per ispirarsi invece, e paradossalmente, allo spurio e (allora) derivativo western italiano. Che del genere è il volto selvaggio e dionisiaco, la versione volutamente deagradata e bassa, con tutto quel sangue, il macabro, il perverso, con tutto il suo spettacolo compiaciuto del massacro e della violenza. Ogni classicità fordiana è perduta, definitivamente, in questo I magnifici sette anno 2016, che tutt’al più si può apparenta alla stagione ultima del western in America, quella di Sam Peckinpah con il suo barocco turgido, e malato. Ma se il film ce la fa a funzionare piuttosto bene (molto meglio dell’altro remake di questo pezzo di stagione cinematografica, il pallido e inerte Ben-Hur), se riesce a essere attrattivo per le oltre due ore che dura e a non sembrare scaduto, è proprio per il suo consapevole allontanarsi dall’originale, di cui ripercorre sì lo schema narrativo di base – quello dei sette contro tutti -, ma non lo stile, non il clima storico, e nemmeno l’epica. Se la versione di John Sturges del 1960 ancora si poteva inscrivere in un cinema celebrativo dell’America della frontiera, dei suoi eroismi e delle sue sfide, delle sue battaglie di affermazione e sopravvivenza, questa firmata da Antoine Fuqua si colloca in una landa astratta come fuori dalla storia, in un territorio e in un tempo sospesi che hanno più a che fare con il mito e il racconto popolare, o anche con il mondo neofantastico dei videogames, che con la Storia Americana (nonostante gli accenni più di maniera che di sostanza a fatti come la guerra civile). Una ballatona di Bene contro Male raggrumati l’uno e l’altro in personaggi esemplarissimi con molti spari, molte crudeltà, molte efferatezze, molti morti. Con spargimenti di sangue, e nemici abbattuti in serie come alla playstation (vedi l’assalto finale dei sette al soverchiante nemico, prima nel villaggio e poi là nella prateria selvaggia). Certo, in sede di sceneggiatura s’è fatto un astuto lavoro di cosmesi per omologare il racconto alle sensibilità ideologicamente corrette d’oggigiorno e alla retorica dei diritti generalizzati e delle pari opportunità estese a ogni genere e minoranza, difatti ecco che a capo dei sette magnifici c’è un nero americano, interpretato da un attore feticcio di Fuqua, Denzel Washington, attore peraltro dotato di un’autorità naturale e di una maestà che ne fa l’interprete ideale del ruolo. Ed ecco anche un coreano svelto di coltelli e lame, e un messicano. Con perfino una velata sottotrama gay nella coppia combattente composta dal suddetto orientale lanciatore di coltelli e il suo procacciatore d’affari e protettore, un Ethan Hawke abile nell’alludere e lasciar intendere ciò che non può essere detto. Aggiungeteci, al di fuori dei sette, la signora che commissiona loro il lavoro di pulizia e vendetta, e che è all’occorrenza femmina combattente mica solo vittima inerme, e il quadro degli aggiornamenti è completo. Ma non è che maquillage, operazione di facciata e marketing che da sola non può rendere contemporaneo un genere che non lo è più. I film se mai affida il proprio destino al suo declinare il western nei modi dell’action fracassone e esagitato dei blockbuster attuali, e a interpreti come il divo, peraltro assai simpatico, per giovani Chris Pratt (Guardiani delle galassie, Jurassic World).
La storia resta nella sua struttura quella dell’originale. In un villaggio contadino del West spadronegga e tiranneggia, senza che nessuno lo fermi anche perché lui si è comprato sceriffo e altri custodi della legge, il perfidisssimo e pervertito Bogue (l’odioso al punto giusto Peter Sarsgarad, appena visto come Bob Kennedy a Venezia in Jackie di Pablo Larrain). Ammazza innocenti, terrorizza grandi e piccini, non ha rispetto nemmeno di Dio. Il suo obiettivo è di impadronirsi della valle sloggiando i poveri farmer onde estendere la sua già fruttifera miniera d’oro. Finché una giovane donna da lui resa vedova incarica un pistolero di passaggio di mettere insieme un pugno di uomini decisi a tutto con i quali dare l’assalto alla roccaforte del perfido. Segue arruolamento da parte del pistolero di sei compagni pronti allo scontro finale, con messa a fuoco dei relativi caratteri da parte di regista e sceneggiatori. Il resto ve lo potete immaginare, anche se non avete visto né Kurosawa né John Sturges. A sorprendere è come Antoine Fuqua, ottimo nel ritmare l’azione e allestire il suo teatro del massacro, pialli via ogni riferimento al western classico americano per riprodurre invece con filologica devozione i nostri western anni Sessanta e primi Settanta. Lo straniero Denzel Washington rimanda dritto al Clint Eastwood della Trilogia del dollaro di Leone, la banda del sadico Bogue a Django di Sergio Corbucci, e la mitragliatrice letale sembra pure una citazione di quel film di inaudita selvaggeria con Franco Nero (la bara trascinata nel fango da Django nascondeva per l’appunto una mitragliatrice che ribaltava gli equilibri in campo). E l’assalto con la dinamite rimanda al protagonista esperto di esplosivi di Giù la testa di Leone, e la vendetta personale che muove Sam Chisolm (il pistolero di Denzel Washington) sembra ricalcata su quella di Charles Bronson nei confronti di Henry Fonda in C’era una volta in America. Dimostrando che oggi, in questo cinema, in questo tempo, il western ancora capace di incantare e creare culto e devozione è quello all’italiana. Come se quel cinema imitativo inventato per caso nei primi Sessanta a Cinecittà abbia finito con l’espropriare l’originale e a fissarsi come canone del genere. Sui titoli di coda si risente il mitologico tema musicale dell’originale di Elmer Bernstein, ed è tuffo al cuore.
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