Recensione: LIBERAMI, un film di Federica Di Giacomo. Esorcismi oggi, e per fortuna che c’è Padre Cataldo

27994-liberami_1Liberami, un film-documentario di Federica Di Giacomo. Premiato al Festval di Venezia 2016 come migliore film della sezione Orizzonti.
27992-liberami_2In sala il documentario italiano vincitore a Venezia della sezione Orizzonti. Ottima l’idea della regista-antropologa di testimoniare il ritorno della pratica esorcistica nella Chiesa di oggi, andando a riprendere posseduti e esorcisti a Palermo. Ma il risultato non è così interessante, con oltretutto strane e non volute oscillazioni tra referto antropologico e commedia all’italiana. Per fortuna a salvare (quasi) il film c’è la grandiosa figura di Padre Cataldo. Voto 5 e mezzo
27996-liberami_3A Venezia questo documentario dell’antropologa-cineasta Federica Di Giacomo ha fatto il botto. Tutti a parlarne – perlopiù bene -, e a chiusura di festival addirittura il premio come migliore film nella sezione Orizzonti, la seconda per importanza dopo il concorso. Il che, francamente, è un po’ troppo, visto che in competizione c’erano un capolavoro, Bitter Money di Wang Bing liquidato con l’assurdo premio alla sceneggiatura (a un documentario?), e un pugno di altre cose interessanti come il giapponese Gukoroku. Certo l’idea di andare a vedere, e riprendere, chi siano oggi gli esorcisti, e quale tipo di fedeli (o pazienti?) richiedano le loro prestazioni per essere liberati dal Maligno (sì, capital letter!), era e resta formidabile. E però Liberami è una delusione, mantenendosi parecchio al di sotto delle aspettative. Con pure imprevedibili oscillazioni tra referto antropologico e modi involontari da commedia, anzi commediaccia, all’italiana: si vorrebbe star parecchio concentrati sull’inquietante fenomeno dell’esorcismo e degli esorcizzati oggi, e invece si finisce col ridere spesso, e chissà se questo era stato previsto della regista (credo di no). Insomma, che cos’è Liberami? Un’indagine su quella terra di nessuno dove si confondono religione tradizionale e nuovi culti sincretistici, sopravvivenze del pensiero magico e bricolage new age, o siamo invece in un quasi-remake, per quanto inconsapevole, dell’Esorciccio? Oltretutto, a intensificare l’imbarazzante assonanza, è che ci troviamo proprio a Palermo, patria di Ingrassia e del suo indimenticato sodale Franco Franchi. Si potrebbe anche accettare questa irresolutezza del film, questa sua strana doppiezza, se almeno riuscisse a interessarci e a tenerci incatenati alla poltrona. Macché. Le storie cui assistiamo son quello che sono, non una gran cosa (con tutto il rispetto per chi le vive con sofferenza vera, e per la regista che ha impiegato anni per filmarle e ottenere permessi e liberatorie), oltretutto stirate e spalmate fino allo sfinimento nostro, con spesso dettagli di poco conto. E nessuna che lasci intuire la potenza e la presenza del Male, o la forza della possessione. Dal Male al male, giù giù fino a malesseri piuttosto quotidiani. Coloro che qui invocano l’esorcismo hanno sì qualche tremore, qualche convulsione, qualche rabbioso balbettio e grufolio riconducibili al repertorio classico della possessione, ma in forma depotenziata, finendo col somigliare principalmente ai pazienti nell’astanteria di un pronto soccorso psichiatrico o di una Asl. Siamo nella zona che gli psicologi pigri chiamano disagio, con la differenza che a guarire stavolta non sono uomini e donne in camice bianco ma sacerdoti specializzati nella pratica dell’esorcismo. Pratica che si configura più come alternativa o terapia complementare a una qualsiasi prescrizione della mutua (e magari meno costosa e più veloce e efficace) che come partita e scontro finale tra Bene e Male. Il demoniaco non lo avvertiamo mai, il sacro nemmeno, tutto è derubricato a patologia comune. L’impressione è che a rivolgersi a Padre Cataldo, il vero protagonista del film (anche se si intravedono altri esorcisti in azione), siano coloro che non hanno tratto giovamento da cure farmacologiche e psicologiche o che, semplicemente, quelle cure non se le possono permettere. Non è molto chiaro nemmeno cosa sia l’esorcismo secondo Santa Romana Chiesa e come si svolga, visto che i sacerdoti che la praticano nel film di Federica Di Giacomo non seguono lo stesso protocollo, ma agiscono assai liberamente secondo procedure diciamo così personalizzate. E dunque c’è chi impone le mani, chi scuote, chi usa formule verbali codificate e chi invece le reinventa a modo suo, e via così in un’infinità di varianti. Comunque la scena se la prende tutta Padre Cataldo, la vera grande possente figura che emerge da questo film, irresistibile nel come si rivolge ai posseduti, nel suo alternare comprensione e blandizie a ruvidezze improvvise, pronto ad aiutare e accogliere ma anche a rimproverare, escludere, chiudere la porta. Lui sì che crede alla potenza del Maligno e alla necessità di scacciarlo, ed è il solo a restituirci il senso della primaria battaglia tra Male e Bene. Ma è anche, Padre Cataldo, un indimenticabile carattere da commedia quando rimbrotta i suoi pazienti, quando fa l’esorcismo al telefono come il Sordi del Medico della mutua le sue diagnosi, o come quando – straculto! – in una casa di ricchezze troppo smaccatamente esibite si incavola per tutta quella pompa opera certamente del Diavolo e lancia litri di acquasanta su un quadro. Menomale che c’è lui, al cui confronto gli altri esorcisti impallidiscono. E però un suo collega un’osservazione interessante la mette a segno, sottolineando come si debba distinguere tra interventi del Maligno su una povera anima e i piccoli narcisismi di chi si proclama indemoniato per stare al centro dell’attenzione. È un dubbio che spesso viene guardando Liberami. Non sto parlando di simulazione, resto convinto che chi va dall’esorcista sia mosso da autentico soffrire, solo che nella maggior parte si tratta di malesseri ascrivibili, più che a una possessione, alle nuove e generalizzate turbe psichiche, dalla depressione al deficit di attenzione, quelle che il filosofo coreano-tedesco Byng-Chul Han diagnostica come risultanti da un eccesso di positività. Bisognerebbe davvero rivedere Liberami alla luce di Byung-Chul Han e dei suoi La società della stanchezza e La società della trasparenza (entrambi editi da Nottetempo), meditando laddove l’autore ascrive le turbe della psiche più diffuse alla rimozione del negativo, dell’antagonistico, dal nostro orizzonte culturale e esistenziale. L’esorcismo presuppone il credere alla negatività assoluta incarnata da Satana, e alla sua esistenza, alla sua minaccia, mentre la nostra contemporaneità – stando al filosofo coreano – la negatività l’ha cancellata, e forse l’han cancellata gli stessi posseduti di Liberami. Tant’è che Padre Cataldo urla più volte che bisogna credere, percependo come il problema risieda in un deficit di fede. C’è una distorsione ottica in Liberami, che vorrebbe documentare il sopravvivere della credenza nel maligno, la sua riemersione nell’oggi, e che invece finisce col mostrarcene la fine, e l’impossibilità. Il riferimento degli autori mi pare siano le classiche ricerche antropologiche degli anni Cinquanta di Ernesto De Martino sulla religiosità popolare del sud italiano intrisa di paganesimi e animismi, e soprattutto sul fenomeno delle tarantate. Gli scarni filmati che possiamo vedere su quel fenomeno e i suoi riti di liberazione ci turbano ancora, e ci convincono, mentre davanti a Liberami non succede mai. È che, scomparso quel sistema culturale di riferimento, non si può nemmeno riprodurre quella forma di possessione. Tant’è che le indemoniate di Liberami (sono perlopiù, anche se non solo, donne a rivolgersi a Padre Cataldo) curiosamente ricordano i molti film sul tema, a partire dall’Esorcista di William Friedkin. Sarà stato il Maligno a forgiarle così, ma forse anche il modello Linda Blair ha fatto la sua parte.

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