Le ultime cose, un film di Irene Dionisio. Con Fabrizio Falco, Roberto De Francesco, Christina Rosamilia, Alfonso Santagata, Anna Ferruzzo, Salvatore Cantalupo. Adesso al cinema in queste sale.
Stava a Venezia alla Settimana della critica, e purtroppo molti se lo son perso, travolti da un programma trppo fitto (come a tutti i festival, del resto). Da recuperare assolutamente adesso che è in sala. Le ultime cose del titolo sono quelle che la povera gente porta al monte di pietà. Siamo a Torino, e intorno al banco dei pegni ruotano tre storie variamente esemplari dello smarrimento nostro contemporaneo. Cinema austero fino alla rerafazione, cinema dell’ellisse e del non detto, in linea con quanto praticato da molti giovani autori europei. Non tutto funziona, ma questo resta un bel film, un bell’esordio per la sua regista Irene Dionisio. Voto 7
Il miglior film italiano a Venezia stava alla Settimana della critica, rassegna indipendente di molti meriti e bei titoli, che purtroppo non sempre chi sta al Lido ce la fa a seguire come meriterebbe per via dei programmi affollatissimi e delle famigerate sovrapposizioni orarie degli screening (un male comune a tutti i festival). E così Le ultime cose, un film austero, sobrio, pudico, non chiassoso, che sussurra e non grida, ha faticato a farsi notare, non potendo contare né sull’esposizione garantita dalla vetrina del concorso principale, né sul rimbombo mediatico di cui invece hanno goduto, anche se per motivi diversi, i sopravvalutati (restando nel cinema italiano a Venezia) Indivisibili e Liberami. La regista Irene Dionisio – trent’anni giusti, precedenti di corti documentari e videoinstallazioni – deve parecchio mi sembra di capire alla scuola torinese del cinema del reale fictionalizzato di Daniele Segre, e adesso con Le ultime cose mette a segno uno dei migliori esordi italiani nel lungometraggio degli ultimi anni, allineandosi per modi, pratiche filmiche e sensibilità al più innovativo cinema europeo. Ambienti urbani derelitti di pura scuola dardenniana, abitati dagli umiliati e offesi della tardomodernità. Vite di pochi denari, acquistate e vendute e consumate sul mercato dei corpi e delle anime. In un linguaggio cinematografico sorprendentemente all’altezza di tanta bella roba giovane-internazionale che si vede ai festival e che quasi mai arriva poi nelle nostre sale. Innanzitutto la pratica massiccia dell’ellisse, dell’allusione, del non detto: per raccontare storie, più che ridotte all’osso, ossificate, scarnificate, abrase, omettendo un’infinità di dettagli, silenziando passaggi narrativi anche essenziali, mostrando e solo mostrando, spesso in lunghe sequenze mute, lasciando allo spettatore il compito di collegare, connettere, interpretare, capire, dare un senso. Cinema faticoso che molto chiede a chi guarda, ma che è anche cinema altamente morale nella sua scelta di dire il meno possibile, di invadere il meno possibile i suoi personaggi, di rispettarli anche a costo di lasciare vaste zona d’ombra e di ambiguità. Un cinema che si usa chiamare, non senza pigrizia, antinarrativo, che è semmai di narrazione ridotta al minimo, nebulizzata, punteiforme, fatta di scarse tracce lasciate qua e là allo spettatore-detective. Le ultime cose ha anche quello che manca a molti dei magari interessanti nuovi film italiani, uno stile, un’impronta personale, una visione decisa, riecheggiando nei suoi ritratti di povera gente qualsiasi non solo i Dardenne e certo Ken Loach, ma anche qualche grande del nostro cinema, Ermanno Olmi, o il miglior Vittorio De Sica, quello di Umberto D. Le ultime cose sono quelle che si portano al monte di pietà quando non ce la si fa più e allora si impegnano o si vendono i piccoli lussi e le illusioni di benessere dei tempi migliori, qualche oggetto prezioso, una pelliccia, un pezzo d’argenteria. Siamo a Torino, in una Torino messa a disposizione dalla come sempre solerte Piemonte Film Commission ma finalmente usata come sfondo necessario ed eloquente, come elemento narrativo in proprio, con quelle atmosfere plumbee e le polverose sopravvivenze ottocentesche che solo lì si possono ancora rinvenire. Sono almeno tre le storie che Irene Dionisio fa ruotare intorno al monte di pietà e che vi trovano il loro punto di intersezione e solidificazione. A partire da Stefano, appena assunto al banco, ragazzo buono e onesto che si ritrova a conoscere il mondo dalla parte più svantaggiata, quella dei clienti disperati, e che all’interno se la deve vedere con un superiore untuoso qunto avido e corrotto. Un quadro livido, di massimo squallore e sconforto. Che sembra a momenti di stare in un implacabile film rumeno alla Mungiu o in uno degli ancora più tosti prodotti della new wave bulgara come The Lesson o il vincitore di Locarno 2016 Godless. Dopo Stefano, ecco il pensionato Michele che, per poter comprare l’apparecchio acustico al nipotino, accetta di lavorare per il losco cognato, uno che traffiica e lucra alle spalle di chi al monte di pietà ci va tutti i giorni, prestando loro soldi a usura e impossessandosi a prezzi da niente delle loro cose. Sarà per l’onesto Michele la discesa all’inferno e la compromissione con il male, una personale degradazione. Terza pista narrativa, la meno convincente e quella che non ce la fa a evitare i cliché, riguarda Sandra, trans infelice illusa e mollata da uno stronzo, rifiutata dalla famiglia, che intravede in Stefano una chance di riscatto. Nonostante la presenza forte della sua interprete Christina Rosamilia, la storia di Sandra annega tra troppi déjà-vu, con momenti francamente evitabili, come l’ex ritrovato in un locale con un’altra o il solito variopinto hotel-comunità dei trans. Ma le storie di Michele e Stefano sono di una precisione quasi antropologica, in grado di restituire frammenti di una realtà allarmante e non così indagata. Cinema contemporaneo e tardomoderno, ma anche nei suoi ambienti e nei suoi personaggi di classicità ottocentesca. Certo, per via di Torino, della sua severità sabauda intatta, dei suoi climi ancora deamicisiani e risorgimentali, ma anche per certe assonanze tra quanto vediamo con tremende storie di denaro, povertà e dannazione alla Dostojevsky, o da naturalismo francese. Il banco dei pegni è luogo privilegiato di precipizi e abissi esistenziali, e torbide vicende, nei romanzi degli ultimi centocinquant’anni almeno, e anche in parecchio cinema (L’uomo del banco dei pegni di Sidney Lumet con Rod Steiger), un luogo dove si ha il condensato chimico di abiezioni, avidità, miserie morali e materiali. Irene Dionisio riesuma con successo questa narrativa antica, anche se non ce la fa a scansare le secche tutte attuali della denuncia, dell’indignazione politicamente corretta, della messa sotto accusa della società produttrice di diseguaglianze. È il lato che convince meno del film, insiema a una certa catatonicità, un’anoressia che è il rischio costante di un cinema come questo volutamente introflesso, imploso, fatto di sottrazione. Ma la colonna dei più sopravanza di parecchio quella dei meno. Nonostante non tutto quadri, Le ultime cose resta un bel film, e un bell’esordio. Fabrizio Falco (era il ragazzo di È stato il figlio di Daniele Ciprì) è bravissimo nel restituire sgomenti e tormenti del giovane Stefano. Alfonso Santagata e Anna Ferruzzo – Michele e la moglie Anna – sono due formidabili attori di scuola napoletana che si vorrebbe vedere più spesso.
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Una risposta a Recensione: LE ULTIME COSE di Irene Dionisio, il miglior film italiano visto a Venezia 2016