Recensione: DEEPWATER di Peter Berg. Gran bel film, questo disaster movie con denuncia

12080268_990451374408981_306161254609507263_oDEEPWATER HORIZONDeepwater – Inferno sull’oceano (Deepwater Horizon), un film di Peter Berg. Con Mark Wahlberg, Kurt Russell, Kate Hudson, John Malkovich, Dylan O’Brien, Gina Rodriguez.
DEEPWATER HORIZONMolto meglio di quanto ci si aspettasse. Deepwater ricostruisce, drammatizzando e spettacolarizzando al punto giusto, il disastro della piattaforma petrolifera che nel 2010 riversò nel Golfo del Messico un fiume di liquami. Un disaster movie con tanto di denuncia e di civile indignazione come non se ne vedevano più da un pezzo, un incrocio assai riuscito tra Sindrome cinese e L’inferno di cristallo. Con i lavoratori nella parte degli eroi e i capitalisti in quella delle carogne, come in un lotta di classe-movie anni Settanta. Un film che riporta al centro della scena i dimenticatissimi blue collar americani. Ottimo Mark Wahlberg, e Kurt Russell è fantastico come decano e totem working class (una nomination all’Oscar no?). Voto 7 e mezzo
DEEPWATER HORIZON
Uno va annoiato all’anteprima stampa aspettandosi il solito action-catastrofico di seriale quanto anonima fattura, incece macché. Dire che è una grossa sorpresa sarebbe troppo, e però questo Deepwater va molto oltre le basse aspettative di partenza (per la serie: mai avere pregiudizi al cinema, e se è per questo pure nella vita). Un prodotto di ineccepibile fattura che rianima un genere sepolto come il disaster movie con risvolti di denuncia e impegno civile, per intenderci Sindrome cinese e successivi derivati. In quel film assai leftist con Jane ‘Hanoi’ Fonda un impianto nucleare impazziva (storia assai vicina al disastro vero della centrale di Three Mile Island, Pennsylvania, anno 1979), qui una piattaforma petrolifera di perlustrazione, non di estrazione, esplode e sputa fuori liquami variamente inquinanti in mare. Ricorda qualcosa? Come no, il peggior disastro ambientale della storia americana, cominciato allorquando – era il 20 aprile 2010 – una piattaforma marina della BP si incendiò con sversamento (Wikipedia dixit) nel Golfo del Messico di una quantità inverosimile di petrolio, sversamento che continuò per 106 giorni prima di poter essere bloccato. Il pozzo da cui uscivano gli infernali liquami si chiamava Macondo,  come l’immaginario ma non troppo villaggio-mondo di Cent’anni di solitudine, e chissà cosa ne avrà pensato Gabriel Garcia Marquez, in quel 2010 ancora abitante di questo pianeta. Deepwater Horizon – tale il titolo originale, che è poi il nome della piattaforma di esplorazione – ricostruisce fedelmente quanto successe allora al largo delle coste della Louisiana.Tiratissimo, specie nella seconda parte quando il pozzo laggiù a 1500 metri di profondità comincia a borbottare. Ritmato e teso al punto giusto, sicché si rimane uncinati dalla storia anche se si sa già come andrà a finire. A dimostrazione di come l’ormai generalizzata paranoia degli spoiler sia, a dirla tutta, una cazzata, perché non importa sapere o meno quel che succederà, ma il come ci viene raccontato (tant’è che si continua a riguardare per la centesima volta e senza noia Via col vento, Guerre stellari, Odissea nello spazio ecc.). Film terso, di massima semplicità, spiccio nel senso che va dritto al sodo senza perdersi in quisquilie e digressioni, nobilmente virile, e non solo perché la crew attoriale è tutta maschile salvo un paio di eccezioni, ma per il tono non sentimentale, secco, non smanceroso con cui i fatti sono mostrati e dipanati. Il regista Peter Berg, che finora non si era particolarmente distinto per brillanti performance, e subentrato last minute a J.C. Chandor cui il film era stato inizialmente destinato, governa con mano ferma la situazione, alternando con sapienza parti action e ritratti da vicino dei personaggi, restituendo soprattutto un sapore di verità e di realtà. Fino a ricordare in certi momenti il miglior Clint Eastwood per sobrietà, immediatezza, adesione ai fatti. I quali vengono ricostruito seguendo la traiettoria umana e professionale di Mike Wiliams, tecnico in capo della Deepwater Horizon. Intorno a lui una folla di altre figure, tra cui svetta il veterano di piattaforme petrolifere et similia Jimmy Harrell, un Kurt Russell che sta magnificamente invecchiando, e meraviglioso e credibilissimo quale blue collar anziano e saggio, il decano cui tutti si rivolgono rispettosi depositario dei segreti del mestiere. La prima parte, apparentemente lenta e riflessiva, è invece la necessaria introduzione a quello che succederà, con la sua precisissima descrizione delle varie figure professionali, delle loro mansioni, dei dettagli tecnici. Quasi un documentary rigoroso su un lavoro che ha ancora le stimmate del lavoro vero, mica il fighettume fuffesco e immateriale d’oggidì, il lavoro che ti fa faticare, sudare, che ti sporca le mani, che ti mette di fronte a scelte nette e a responsabilità. Un film che colloca al proprio centro i blue collar, categoria quasi scomparsa dal cinema attuale per mancanza (e meno male, dico io) di glamour, e qui tornata protagonista. Con attori benissimo scelti in grado di restituirci umori, modi, riti individuali e collettivi di una classe lavoratrice che si ostina a resistere e persistere anche se i media l’hanno silenziata, uno stuolo di signori interpreti tutti con la faccia e i corpi giusti che sono tra le ragioni dell’ottima riuscita di Deepwater Horizon. E un protagonista, Mark Wahlberg, al suo meglio, come sempre quando deve interpretare uomini, e uomini veri, del popolo, o di quella categoria sociale spregiativamente liquidata come white trash (vedi The Fighter). L’andamento del racconto segue i fatti del 2010, con le giuste e necessarie astuzie nel drammatizzare e spettacolare, perché siamo in un film, mica in un’inchiesta giornalistica con ambizioni di Pulitzer. Tuto sembra normale all’inizio. Peccato che si scopra ben presto come il perfidissimo rappresentante sulla piattaforma del padronato, interpretato al giusto grado di odiosità da un mefistifelico e mellifluo John Malkovich, abbia omesso, naturalmente per risparmiare sulle spese, dei fondamentali test di sicurezza. La parte proletaria-lavoratrice, con Mike e il veterano Jimmy in testa, esige e ottiene che i controlli omessi si facciano. Ma è troppo tardi. Qualcosa là in fondo nel pozzo è andato storto, e da quel momento è un’escalation. Fuoriescono gas e petrolio, si arriva all’esplosione e allo spill, il travaso in mare. Tutto crolla e sprofonda, mentre le cento e più persone sulla piattaforma cercano di mettersi in salvo, e qualcuno non ce la farà. In questa seconda parte il film si immette nella scia dei grandi apocalittico-catastrofici anni Settanta con fuoco e fiamme tipo L’inferno di cristallo, e però con tanto di virtuosa denuncia delle malefatte e dell’avidità di una multinazionale che per tirare sui costi mette a repentaglio la piattaforma, il pozzo, chi ci lavora, l’ambiente. In un’indignazione che ricorda i film di lotta di classe, anche italiani, dei remoti anni Settanta dove tutti i ricchi erano in automatico arruolati nella categoria della mala umanità. Si sta col fiato sospeso, mentre la Deepwater Horizon cade a pezzi sotto l’onda di fuoco alimentata dall’eruzione di gas e petrolio, e si sta naturalmente tutti dalla parte dei buoni lavoratori e contro i cattivissimi padroni. Il film sarà anche schematico e veteroideologico (anzi lo è), e il perfido uomo del Kapitale interpretato da John Malkovich sarà un po’ troppo rozzamente disegnato, ma l’efficacia di Deepwater come spettacolo è fuori discussione. Gran bel film. e stavolta, con tutte quelle fiamme, e in omaggio al più classico dei disaster movie anni Settanta, la classe operaia va all’inferno. Di cristallo.

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