The Last of Us (Akher Wahed Fina), un film di Ala Eddine Slim. Con Jawher Soudani, Fathi Akkari, Jihed Fourti. Tunisia. Film presentato a Venezia alla Settimana della critica 2016 vincitore del premio Leone del Futuro – Premio Venezia Opera prima “Luigi De Laurentiis”.
Arriva dalla Settimana della critica il film tunisino che a Venezia ha vinto (meritatamente) come migliore Opera prima. Anche qui, come in tanti racconti non solo cinematografici degli ultimi anni, si parla di un migrante che dalle coste nord africane cerca di raggiungere via mare l’Europa. Ma The Last of Us dopo una prima parte più tradizionalmente cronachistica, svolta verso il cinema fantastico della sub- e sur-realtà trasportando il suo protagonista in una terra misteriosa dominata dalla legge di natura. Un parabola aperta a ogni possibile interpretazione. A essere incontrovertibile è l’assoluta diversità di questo film. Voto 8

da sin.: il produttore, l’interprete e il regista di The Last of Us ritirano il premio Opera prima-Luigi De Laurentiis. Photo courtesy Biennale cinema/ASAC
E però, a ripensarci e a scriverne anche adesso a un mese e passa di distanza, quanta bella roba s’è vista a Venezia 2016 e immediati dintorni. Intendendo per dintorni le due rassegne collaterali e indipendenti Giornate degli autori e Settimana della critica. E proprio un film della Settimana, The Last of Us, è risultato poi vincitore del premio Opera prima, scelto tra tutti gli esordi presenti nelle varie sezione, dalla selezione ufficiale alle altre (sul modello della Caméra d’or di Cannes). Premio sacrosanto (peccato però per Jours de France, sempre della Settimana, altrettanto bello e importante). Akher Wahed Fina (L’ultimo tra noi), questo il titolo originale in arabo del lungometraggio d’esordio del tunisino trentaduenne Ala Eddine Slim, è tra le cose meno omologate emerse da Venezia quest’anno, imperfetto, ma ardito nel raccontarci una storia di migrazione bypassando tutti i cliché di un genere ormai consolidato (da Fuocoammare di Gianfranco Rosi a Mediterranea di Jonas Carpignano). Un tema, quello dell’esodo dall’Africa via mare verso l’Europa, sempre di massima attualità, ancorato alle cronache quotidiane e alla più dura fattualità di questo tempo storico, e che pure il regista tunisino – precedenti in corti e videoarte – immette in un cinema che più lontano non potrebbe essere dal neo-neorealismo: il cinema del fantastico, del visionario, del sur- e subreale. Con imprevedibili consonanze con Apichatpong Weeresethakul. In una libertà espressiva che ci spiazza e fa di The Last of Us qualcosa di differente. Ci ha visto giusto la giuria presieduta da Kim Rossi Stuart a dargli il premio Opera prima-Luigi De Laurentiis, premio oltretutto assai concreto, consistendo in due assegni da 50mila euro per produttore e regista. The Last of Us si inserisce nell’attuale renaissance del cinema arabo che, oltre a coltivare generi tradizionali e consolidati come la commedia e il melodramma, finalmente si arrischia in territori più ostici adottando forme e linguaggi tra i più avanzati. Un film come Silvered Water sul conflitto siriano ha qualche anno fa rifondato lo stesso genere documentaristico ibridandolo con reminiscenze nouvellevaguistiche (e aprendo la strada ad altri film non convenzionali sulla guerra di Damasco come Coma e The War Show, uno più bello dell’altro), quest’anno In the Last Days of the City, lanciato alla Berlinale, ha mescolato cinema narrativo e del reale per raccontare l’Egitto pre-piazza Tahrir. E adesso questo The Last of Us, di un autore che porta dentro il suo film la libertà e l’attenzione alla pura visualità della videoart da cui proviene. Non ci sono parole in questo film che si affida solo ai rumori di fondo, delle città convulse come della natura, e pialla via la voce umana se non nell’intervallo tra prima e seconda parte, con la lettura in voice off di alcuni versi enigmatici trascritti sullo schermo nero e incorniciati da interventi di minimalismo grafico più moderni che post-moderni. Un film diviso, con una prima parte più classica, anche se meravigliosamente girata, dove abbiamo modo di conoscere il protagonista, un ragazzo venuto dall’Africa subsahariana in Tunisia per poi fare il grande balzo per mare verso l’Europa. Niente ci viene detto di lui, il pressbook lo chiama N, ma nei credits di coda compare ancora più anonimamente solo come ‘il giovane uomo’. Con lui un compagno di viaggio che resterà vittima di un’aggressione probabilmente xenofoba. Attraverso gli occhi di N vediamo una Tunisia perlopiù minacciosamente notturna, di strade e autostrade e macchine che la percorrono, e poi la capitale, Tunisi, dove N si aggira come un fantasma, solo, abbandonato a sé, come invisibile alla folla che lo sfiora indifferente. Ruba una barca di pescatori e si inoltra in mare, ma finirà in avaria, farà naufragio. Questa prima parte apparentemente così classica e inscrivibile nel genere Fuocoammare, in realtà è già profondamente altra. Ogni spiegazione di quel che accade, ogni lettura psicologistica o sociologistica dell’agire dei personaggi sono piallate via. N e il suo amico – finché resta in scena – sono uomini-ombra che si muovono in paesaggi resi paurosi e spettrali dal loro sguardo attonito e impaurito, di gente venuta da chissà dove. Cieli, città, mare che sono pura visione e proiezione mentale, già prefigurando nella forma, se non nella narrazione, quanto vedremo nella sorprendente parte seconda. Che comincia con N il naufrago approdare, come Ulisse, su una spiaggia misteriosa, alle spalle della quale si apre una foresta intricata e primordiale. Precipiterà in una trappola per animali, si ritroverà a regredire allo stato di natura e a combattere per la sopravvivenza. A soccorrerlo, come Nausicaa fece con Ulisse, è un vecchio che man mano gli insegnerà a muoversi in quel mondo fuori dal tempo e da ogni vivere civile. Fino a una chiusura enigmatica, in cui N sembra essere assorbito, corpuscolo nel tutto, da una natura madre e padrona. Forse, come ha scritto Roberto Silvestri sul blog Ilciottasilvestri, Ala Eddine Slim ci svela come il migrante non sia, agli occhi intorpiditi e pigri dell’Occidente, che un fantasma, un non-essere, un non-uomo. O forse Slim ha solo voluto riproporre a modo suo l’eterno mito del Mediterraneo come luogo di viaggi misteriosi, di avventure tra il reale e il surreale, di passaggi tra questo mondo e altri paralleli, il luogo non-luogo dell’Odissea e della leggenda di Atlantide, e chi meglio di un migrante nel suo errare obbligatoriamente casuale e dettato da forze esterne e oscure e a lui inconoscibili, può riattraversare quel mito, rivivere quelle avventure. Adottando i modi della parabola e del simbolico, Ala Eddine Slim lascia aperta ogni interpretazione e tutte le autorizza, mantenendo il film in un’area di felice ambiguità. Non tutto funziona. Soprattutto la seconda parte è afflitta da qualche déjà-vu di troppo, il ritorno allo stato di natura non evita luoghi comuni come la trappola, la caccia per la sopravvivenza. E la parte finale con una luna-stalker, astro minaccioso e persecutore, sposta con troppa decisione il film verso il fantastico. Ma l’audacia nel raccontare le nuove migrazioni al di fuori di ogni convenzionalità, e anche oltre ogni banale correttezza politica, fa di The Last of Us un film importante. Nel caso vi capitasse a tiro in sala o altro mondo, non perdetevelo.