The Terminal, di Steven Spielberg, Paramount Channel, ore 22,30.
Uno Spielberg del 2004 che devia dai suoi soliti percorsi di narratore di favole per adulti ed eterni bambini per raccontare una storia nostra contemporanea e più che mai attuale. Un uomo proveniente da un paese dell’est europeo arriva a New York, ma non sa che un colpo di stato in patria ha nel frattempo reso inutilizzabile il suo passaporto. Naturalmente lo bloccano, non gli fanno passare la dogana, lo costringono a restare in quella terra di nessuno al di fuori di ogni sovranità che si trova tra le piste e il territorio statunitense. Il povero Viktor è costretto dalla burocrazia, questo mostro della nostra era, a vivere tra aerei che decollano e sale d’attesa. La sua terra nuova e non promessa diventa l’anonimo terminal percorso da gente che va e gente che viene, fitto di tabelloni luminosi e voci amplificate da minacciosi altoparlanti, luogo senza identità che incarna l’anonimato e il nulla, uno di quei non luoghi descritti e codificati dall’antropologo Marc Augé in un suo celebre libro. Ad occuparsi, e a innamorarsi del povero migrante senza patria e senza casa è una hostess, interpretata da una stavolta amabile e simpatica Catherine Zeta-Jones. Mentre lui, Viktor, è un Tom Hanks in una delle sue performance di strepitoso mimetismo (parla in una lingua immaginaria dell’est europeo, inventata apposta per il film, non potendo la produzione tirare in ballo un vero paese e relativa lingua per motivi di opportunità politica). Lo spaesamento dell’apolide, dell’eterno migrante, del senza patria: quella di The Terminal è una storia e una faccenda che ha molto a che fare con il nostro oggi percorso da flussi migratori, ma che ha moltissimo a che fare anche con la figura archetipica dell’ebreo errante. Spielberg, ebreo americano, porta in questo film tutto il senso di sradicamento della sua famiglia e della sua gente provenienti dall’Est Europa, porta dell’ebraismo mitteleuropeo la paura costante della persecuzione, dunque della precarietà della propria vita, e lo fa in chiave di commedia agra, secondo la lezione e la tradizione di due dei grandi nomi dell’ebraismo anni Venti-Trenta approdati a Hollywood, Ernest Lubitsch e Billy Wilder. Film complesso, che merita una visione, e che è meglio tirar fuori da quel limbo della memoria, da quel non luogo in cui è precipitato dal suo apparire.
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