Recensione: IO, DANIEL BLAKE di Ken Loach. È in sala il film Palma d’oro a Cannes


OC889203_P3001_213567Io, Daniel Blake, un film di Ken Loach. Con Dave Johns, Hayley Squires, Briana Shann. Vincitore della Palma d’oro al festival di Cannes 2016. In sala da venerdì 21 ottobre 2016, Distribuzione Cinema di Valerio De Paolis.

b9201756877c9c4d30e58d48da0783b7A ottant’anni Ken Loach continua a denunciare, a indignarsi e fare indignare lo spettatore per le malefatte del capitalismo. Stando sempre dalla parte degli ultimi. Come i protagonisti di questo suo nuovo film, un quasi-sessantenne malato e senza lavoro e una giovane madre single. Certo, veteroideologico. Certo, didascalico e dimostrativo. Però, il Loach-touch, quel modo di raccontare con rispetto e senza retorica gli sconfitti, colpisce ancora. Vincitore a sorpresa (non fidatevi di quelli che ‘io l’avevo detto’) della Palma d’oro allo scorso Cannes. Voto 7
idb-day-14-076_dan_dave_johnsidb-day-3-038_dan_dave_johns_katie_hayley_squiresCredo che lo stesso Ken Loach abbia perso il conto di quanti film abbia presentato, nel corso di una carriera cominciata nei lontani Sessanta, al festival di Cannes. Di cui è un totem. Più facile il conto delle palme d’oro: due, la prima con Il vento che accarezza l’erba, anno 2006, la seconda con questo Io, Daniel Blake a Cannes 2016, ed è stata un’enorme sorpresa (chi mai se lo aspettava? Il film non aveva convinto per niente i critici, soprattutto francesi e gauchiste, dunque non fidatevi di quelli che ‘io l’avevo detto’). Neo-ottantenne – il traguardo l’ha tagliato lo scorso 17 giugno -, resta lo stesso indomito autore degli esordi, un laburista-socialista vecchio stampo sempre dalla parta della working class e degli umili, ultimi e diseredati di ogni parte del mondo. Che però quando la butta troppo sul predicatorio e sull’archeo-ideologico, pur con tutto il bene che gli si vuole, vien voglia di tirar giù la cler e dire basta, grazie Ken, ma abbiamo già visto, abbiamo già dato (è successo un paio di anni fa con il suo documentario The Spirit of ’45). Quando però il messaggio e l’ideologia li nasconde molto bene, come sa fare lui, in microstorie di gente qualunque e ne fa narrazione pura, allora giù il cappello, e massimo rispetto. Io, Daniel Blake è uno dei suoi esemplari racconti di gente sconfitta che però mai deflette, mai si piega, mai rinuncia alla dignità e a quello in cui crede. Sì, i famosi e oggi innominabili valori. Commovente, anche. E ricordo a Cannes i molti kleenex usati, ed erano lacrime di destra e di sinistra perché il vecchio Ken sa come arrivare dritto a cuore e alle viscere di tutti. Vero Io, Daniel Blake è esemplarissimo, troppo esemplare, un film che ci vuole istruire e coinvolgere nella triste sorte di un signore ultracinquantenne che con fatica dopo un infarto cerca di risalire. Come in Brecht (mi chiedo sempre se il molto umanista Loach conosca e soprattutto ami il rigoroso, algido e dimostrativo drammaturgo tedesco), le storie individuali devono dirci qualcosa della Storia, dello Zeitgeist, con personaggi che siano rappresentativi di un clima, di un passaggio, di un tornante dell’eterno evolversi della macchina capitalistica. Così Daniel Blake pasa da una sfiga all’altra, senza remissione, acciocché lo spettatore veda e tocchi con mano quale sia il calvario-tipo di un uomo che, per un motivo o per l’altro, perda oggi il lavoro in Inghilterra, anzi in Occidente. Il vedovo Daniel dopo l’infarto si ritrova incastrato nelle pastoie di una burocrazia impersonale e feroce. Deve sottoporsi a interrogatori e visite per stabilire se abbia diritto o no all’assegno per invalidità, se possa tornare o no al lavoro, se abbia diritto o meno all’assegno di disoccupazione. Con precississime e inderogabili procedure cui deve ottemperare, pena l’esclusione da ogni beneficio. I rapporti tra Daniel e il mostro burocratico travestito da welfare e soccorso del lavoratore in crisi sono semplicemente agghiaccianti. Modellati sull’archetipo del Processo kafkiano e anche sui demenziali paradossi di Comma 22. Alrettanto e anche più triste la storia parallela della sua vicina di casa, una giovane mamma-single di due bambini avuti da padri diversi e rimasta senza lavoro. Entrambi dovranno fare fronte alla miseria, quella vera e nera, quella che ti impedisce di pagare le bollette, che ti fa fare la fila al banco alimentare per portare a casa aggratis qualcosa da metere nel piatto. Due sconfitti, che tutto subiscono senza però mai perdere la dignità. Perché questo è il miracolo del cinema di Ken Loach. Sarà veteroideologico, sarà un vecchio socialista fuori tempo massimo, ma ha il dono di saper raccontare la gente con rispetto, e di farcela amare. Un tocco che aveva Vittorio De Sica, che hanno Ermanno Olmi e i Dardenne, e pochi, pochissimi altri. Cascan le braccia in certi momenti di Io, Daniel Blake, sbuffi nel vedere come il poveretto sia bersaglio di troppe sfighe, una via l’altra, in una via crucis che sta lì didascalicamente a denunciare la malvagità del capitale. Ma, come di fronte al pensionato Umberto D. che per vergogna manda il cane a chieder l’elemosina con il cappello in bocca, poi ci si commuove e si piange anche per Daniel Blake.

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