Caffé, un film di Cristiano Bortone. Con Ennio Fantastichini, Dario Aita, Miriam Dalmazio, Hichem Yacoubi, Zhuo Tan, Fangsheng Lu. Presentato a Venezia 2016 alle Giornate degli autori/Venice Days.
Un film parcchio ambizioso rispetto alla media del nostro piccolo cinema indipendente. Una co-produzione internazionale che si muove tra Italia, Belgio e Cina, raccontando tre storie con un elemento comune a connetterle, il caffè. Il destino nella tazzina? Peccato che il film perde man mano quota e le storie si facciano sempre più pretestuose e artificiose. Con anche qualche goffaggine mélo di troppo. Tre film diversi che non ce la fanno a raccordarsi. Voto 4 e mezzo
Di buono in questo film c’è la voglia di uscire dall’asfittico cinema italo-indipendente tinello e cucina, piccoli ambienti per piccole storie di ancora più modesti personaggi. Cristiano Bortone, l’autore di Caffè, ha pensato in grande, riuscendo brillantemenete con i suoi collaboratori in una missione impossibile davvero, quella di un film coprodotto da Italia, Belgio e Cina che procede lungo tre diverse tracce narrative destinate naturalmente a collidere secondo modelli consolidati (Crash, Babel ecc.), e naturalmente collocate in tre set differenti. Dove? Indovinato: in Italia, in Belgio e in Cina (sono i capitali a comandare, sempre). A momenti si ha l’impressione di un microcolossal, nel vagare di Caffè tra paesi e continenti che quasi sembra di essere in un cinema di opulenze americane. Poi la delusione subentra, le storie, o meglio il loro sfiorarsi tangenzialmente, si fanno sempre più pretestuose, sfilacciate, casuali, buttate lì a celebrare e giustificare quel che è l’elemento di connessione tra di loro, il caffè. Mentre dovrebbe, in una sceneggiatura abilmente costruita, essere il contrario, dovrebbe essere l’elemento di connessione e raccordo a essere giustificato dalle storie. Non voglio vedere ombre dove non ci sono, ma la sensazione – ripeto, solo una sensazione – è che questo film abbia come fine primo e ultimo di magnificarci le virtù della bevanda da cui prende il titolo, le sue molteplici tipologie, la qualità somma di certe varietà come quella coltivata nello Yunnan, area della Cina ai confini con la penisola indocinese, più che di coinvolgerci davvero con una narrazione. Si parte dall’Italia, da Roma, con un ragazzo eccelso intenditore e amante della tazzina, in grado di individuare in base ad aromi e altri segnali la miscela che ci sta dentro. Peccato che al proprietario del bar in cui lavora non gliene freghi niente di tanta passione e sapere, e lo licenzi alla prima occasione. Da Roma Renzo si trasferisce con la sua ragazza (non proprio un tipetto di massima simpatia) a Trieste “capitale italiana del caffè” (ma perché poi? basta la sede di un noto brand del settore a giustificare la definizione?), convinto di trovare un posto adeguato al suo know-how. Fnirà sì nel ramo caffè, ma a scaricare sacchi. Finché alcuni compagni di lavoro lo coinvolgeranno in una disgraziata rapina(dove c’entra una strana ed esotica specie di caffé). Intanto ad Anversa, Fiandre belghe, un arabo proprietario di una piccola oreficeria diventa il bersaglio di un attacco xenofobo di terrificante brutalità. È l’episodio di gran lunga più interessante dei tre, anzi l’unico, in grado di farci penetrare all’interno della minima borghesia di immigrati sospesa tra integrazione imperfetta e fedeltà alle tradizioni di origine. Peccato che qui l’elemento-caffè, incarnato da un bricco d’argento preziosa eredità di famiglia, sia labilissimo e del tutto inadeguato a inserire l’episodio nell’affresco complessivo. Nella terza storia, la più articiolata ma non per questo migliore, siamo invece nello Yunnan, con una comoplicatissima vicenda edipica di un figlio che si è ribellato al padre e non ha voluto saperne della piccola piantagione di caffè di famiglia. Si inserisce nella vicenda anche lo spietatissimo padrone che si rifiuta di chiudere la sua fabbrica fatiscente e pericolosa per non perdere le commesse, mettendo così a rischio lavoratoi e ambiente. Ed è l’unico episodio in cui il caffè ha una vera funzione narrativa. Probabile fosse il nucleo originario del film attorno al quale son state poi agiunte le altre due. Ma è tutto faticosissimo, artificioso, lo sforzo di tenere insieme tre set così diversi e lontanti con il pretesto del caffè evidente. Il capitolo cinese, con la sua polemica sull’industrializzazione forzata del paese, ha pure momenti melodrammatici di massima goffagine e improbabilità, e il confronto – che vien naturale – con i film di Jia Zhangke, il cineasta cinese pure lui assai critico verso il processo di modernizzazione, è devastante per Caffè. Si salva appena il framento belga, anche se pure in questo caso non tutto torna. Per dire: è credibile, visto che siamo ad Anversa, che il protagonista Hamed parli francese e non capisca una parola di fiammingo? Ma come fa a campare? Basta esserci stati, ad Anversa, anche solo di passaggio, per sapere che se parli francese i fiamminghi, con la loro voglia di rimarcare la propria differenza rispetto alla Vallonia, neanche ti stanno ad ascoltare.