Un mostro dalle mille teste (Un monstruo de mil cabezas), un film di Rodrigo Plá. Con Jana Raluy, Emilio Echevarria, Sebastián Aguirre. Distribuito da Cineclub Internazionale. Al cinema da giovedì 3 novembre 2016.Dal Messico uno dei film più applauditi di Venezia 2015 (sezione Orizzonti). Un atto di accusa in forma di thriller alla sanità privata e affaristica. Una donna cerca, pistola in pugno, di farsi prescrivere dai responsabili della sua assicurazione sanitaria il farmaco che potrebbe salvare la vita al marito, e che loro le hanno sempre negato perché troppo costoso. Populista e con vistosi buchi di sceneggiatura. Ma teso al punto giusto, e assai avvincente. Potrebbe diventare un successo. Voto tra il 6 e il 7
(recensione scritta dopo la proiezione al festival di Venezia 2015)
Applausi di quelli molto caldi e partecipati al press screening per questo film messicano, tant’è che molti si son chiesti come mai non sia stato messo in concorso e confinato invece nella meno visibile, anche se più edgy e sperimentatrice, sezione Orizzonti (competitiva però, con tanto di giuria presideduta da Jonathan Demme). Uno dei titoli, e non sono pochi, che in questi primissimi giorni di festival hanno affrontato le famose (famigeratate?) e mai spente, soprattutto nella coscienza del giornalista medio-unico italiano, tematiche sociali. Qui siamo in Messico, nella capitale, e il bersaglio grosso di questo non trascurabile, abilissimo film destinato a sicuro successo internazionale (anche da noi, se adeguatamente distribuito) è la sanità privata, il cinismo e la cupidigia dei signorotti dei farmaci e delle terapie. Rodrigo Plá però il suo film di classicissima, robusta denuncia lo realizza in forma di thriller, ricorrendo ai modi e ai luoghi narrativi di certo cinema di genere, e azzecca un racconto che, pur con parecchi buchi di verosimiglianza e sceneggiatura, tiene avvinti fino all’ultima scena. Come peraltro aveva già fatto nel suo precedente La zona, presentato proprio a Venezia sul finire della scorsa decade e poi diventato un ottimo successo internazionale nel giro arthouse. In quel film Plá immaginava un mondo appena appena distopico con i ricchi rinserrati in zone protette cui i poveri davano l’assalto, qui non ha bisogno di immaginare nessun futuro, si limita a registrare il presente e le sue molte cose storte. La rigida divisione di classe, presente nella Latino America molto più che in Europa, e più estrema, la plebe o se preferite il popolo a fronte di una casta di privilegiati. Il motore narrativo del film è innescato dal cortocircuito tra questi due mondi. Succede che una donna, il cui ancor giovane marito sta morendo di cancro, non riesce a farsi dare dalla società presso cui ha contratto la sua assicurazione sanitaria, un farmaco che potrebbe far regredire il male. Non glielo passano semplicemente perché i perfidi amministratori e soci della compagnia l’hanno escluso dai loro protocolli in quanto troppo costoso. E allora che fa la signora esasperata? Insieme al figlio diciassettenne cerca a tutti i costi di procurarselo. A tutti i costi vuol dire andare a casa del medico dell’assicurazione, minacciarlo con la pistola, farsi accompagnare prima dal direttore e poi da una socia dell’azienda per avere le loro indispensabili firme sui maledetti documenti. Ricorda qualcosa l’odissea di questa donna tra le strade e le architetture modernisticamente proterve di Mexico City? Già, ricorda Quel pomeriggio di un giorno da cani di Sidney Lumet dove un giovane Al Pacino rapinava una banca per finanziare al compagno l’operazione di cambio di sesso. Film forse allusivamente ricordato, o inconsciamente richiamato, allorché la madre dice al figlio, in una delle poche pause della loro notte disperata pistola in pugno, ‘la prossima volta potremmo rapinare una banca insieme’. Un mostro dalle mille teste (ma qual è il mostro: la sanità privata? l’arrogante borghesia messicana? il cancro?) ti inchioda alla poltrona, ed è già un bel risultato. Rodrigo Plá conduce il suo racconto in un crescendo che rispecchia in pieno le regole del noir, lasciando però il finale giustamente ambiguo e aperto. Non mancano i problemi. Il primo è il manicheismo e il vetero-ideologismo che innescano la macchina narrativa, quella rigida contrapposizione tra ricchi e poveri che coincide con quella tra cattivi e buoni, come in un film populista anni Cinquanta senza troppe sfumature. Il secondo sta in una voragine di sceneggiatura. Davvero la protagonista pensa che una volta ottenuta con la minaccia delle armi la prescrizione del farmaco i suoi guai di famiglia siano risolti? Non le viene il sospetto che, arrivata a casa col flacone salvavita in borsa, troverà ad aspettarla la polizia?
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